La storia del programma Intel Inside rappresenta probabilmente un esempio di come il brand possa rivestire un ruolo fondamentale nel successo anche di imprese B2B (business to business), che solitamente sono scarsamente focalizzate su questo fattore competitivo.  anzi, è molto più di un esempio: è la best practice in assoluto più importante nella storia del marketing nei settori B2B.

Alcuni hanno definito tale pratica, che vedremo tra poco, in-branding, nel quale un brand ha una visibilità utilizzando come media un altro prodotto e le attività di comunicazione di tale prodotto.

Ma andiamo per gradi, iniziando prima col contesto di business in cui si muoveva Intel in quegli anni.

 

Il mercato dei microchip

Il microchip (circuiti integrati), minuscoli componenti costruiti intorno a wafer di silicio, sono un elemento essenziale nell’elettronica digitale, in quanto elaborano segnali elettrici in entrata trasformandoli in dati in uscita. Senza di essi, il mondo moderno, fortemente basato sull’elettronica, non potrebbe esistere così com’è: computer, smartphone, ma anche le moderne automobili, non sarebbero nemmeno concepibili.

All’inventore, l’ingegnere Jack St. Clair Kilby che nel 1958 produsse i primi esemplari è stato giustamente riconosciuto il premio Nobel per la fisica nel 2000.

Componente eccezionalmente costoso alle origini, il microchip aveva poi visto i suoi costi di costi di realizzazione ridursi notevolmente nel tempo, grazie al miglioramento delle tecnologie produttive ma non solo. Con il diffondersi dei PC negli uffici e nelle case, l’aumento della domanda derivata di microchip aveva determinato produzioni in volumi crescenti e quindi economie di scala.

Quale conseguenza di queste economie di scala, il costo realizzativo dei microchip era ulteriormente sceso, rendendo nel tempo i PC sempre meno costosi, stimolando così la domanda di PC e quella derivata di microchip. Aumentava così la domanda di microchip, che generava crescenti volumi produttivi e ulteriori economie di scala, e quindi costi realizzativi decrescenti, riflessi nei prezzi di vendita in calo a causa della competizione tra produttori di microchip.

Insomma, si era avviato un circolo virtuoso che inizialmente aveva espanso il mercato. Ma che alla fine si era trasformato in circolo virtuoso, condannando i prezzi di vendita dei microchip ad una continua discesa e quindi riducendo questi sofisticati componenti a vera e propria commodity.

Quando parliamo di commodity, lo ricordiamo, intendiamo un prodotto così indifferenziato tra i vari produttori che per un’azienda – come un produttore di PC – diventa irrilevante rifornirsi di quel componente da questo o da quel fornitore. E a quel punto l’unica leva negoziale per i produttori di microchip resta il prezzo, ma riducendo il prezzo si alimenta il generale trend negativo dei prezzi del prodotto riducendo la marginalità generale del business.

La vita per un produttore di microchip era diventata dura, molto dura: margini ridotti al minimo, competizione feroce, trattative di vendita con i clienti ridotte a discussioni di prezzo e non più di prestazioni… e di questo ne sapeva qualcosa Intel.

 

Intel e il cambio di strategia di marketing

Intel è una azienda californiana, nata nel 1968 per la produzione di memorie, che dal 1971 si era allargata anche al nascente mercato dei microchip e nel 1982 era divenuta fornitore di microchip per un colosso come IBM.

Nel 1983 sotto la guida del suo co-fondatore e presidente Andy Grove (un pezzo di storia dell’imprenditoria americana, meriterebbe un articolo a sé) aveva orientato la strategia proprio verso il business dei microchip, abbandonando il definitivamente business delle memorie.

Andy Groove Intel B2B

Decisione corretta, da vero visionario, quella di Andy Grove, visto che il mercato era trainato dalla rapida diffusione dei personal computer. E tuttavia la nuova strategia poneva l’azienda già dopo pochi anni di fronte a quel fenomeno di “commoditization” dei microchip prima spiegato.

La risposta alla minaccia venne data dalla continua capacità di Intel di innovazione di prodotto, a cui però sorprendentemente si affiancò la più geniale strategia di marketing che si sia vista in fatto di brand development nel B2B.

Si trattava di una strategia di differenziazione. mirata a posizionare Intel come qualcosa di ben distinto dai tanti fornitori di microchip, valorizzando il prodotto anche tramite il brand.

La domanda di microchip è una domanda derivata, in quanto dipende dalla domanda degli utenti finali. E come fare in modo che gli utenti finali percepiscano un PC con all’interno un microchip Intel come più performante ed affidabile?

Si trattava di gestire un passaggio dal B2B al B2(B2)C o meglio di integrare un modello di business B2B con una strategia di marketing B2C.

Questo avrebbe richiesto lo sviluppo della brand equity di Intel anche in riferimento al cliente finale, portando in Intel, azienda industriale, alcune logiche da azienda consumer.

Questa strategia di marketing si concretizzava con il programma Intel Inside.

 

Intel alla scoperta del brand

In passato il marketing di Intel si era focalizzato sul comunicare specifiche tecniche al cliente diretto, e non al cliente finale, l’acquirente del PC (consumer). Nulla di strano, si tratta tutt’oggi di una strategia standard nel B2B. Ma come dimostra il casom Intel, non è detto che sia sempre la strategia migliore.

A questo punto della nostra storia entra in gioco colui al quale si deve l’idea originale del programma Intel Inside: Dennis Carter, uomo di marketing di Intel.

L’azienda aveva lanciato un microprocesso altamente innovativo ma più costoso della media di mercato, il 386, e Dennis Carter aveva intuito che una delle ragioni delle vendite al di sotto delle aspettative era che il cliente finale non intendeva riconoscere un prezzo più alto ai PC che contenevano il 386.

Aveva così lanciato una prima campagna pubblicitaria rivolta al consumer, nota come “Red X”, per stimolare le vendite del 386. I risultati non furono brillanti e, nonostante ciò, Carter aveva intuito che era sulla buona strada.

Come ricorderà anni dopo Dennis Carter:

“Avevamo dimostrato che potevamo comunicare informazioni tecniche in un modo basilare [agli acquirenti dei PC], e conclusi che avremmo dovuto fare di più. Inavvertitamente, avevamo creato un brand per i microprocessori.”

Questa prima sperimentazione spinse poi Carter, nel 1990, a ideare una sorprendente strategia di in-branding, con straordinari gli straordinari raggiunti in tempi brevissimi.  Una interessante dimostrazione di come fare marketing non è un processo lineare, ma un processo che deve essere aperto alla ricerca e test di soluzioni, lungo una curva di apprendimento basata anche sugli errori.

 

Il programma di marketing Intel Inside

Nel settore di riferimento, i clienti diretti di Intel sono in genere quelli che vengono indicati con l’acronimo OEM, ovvero original equipment manufacturers:  produttori di apparecchi originali. Si tratta delle aziende che producono device, commercializzati con il proprio marchio ma costruiti assemblato componenti prodotti fisici ma anche software forniti da terzi. Esempi di OEM di PC sono Dell, Lenovo o HP.

Con Intel Inside si costruiva un sistema di partnership tra Intel e appunto gli OEM, quelli nei cui PC veniva inserito il microchip di Intel.

La partnership era (ed è tuttora) basata su accordi che prevedono;

  • l’inserimento dello sticker “Intel Inside” sul PC per dare evidenza alla presenza di un microprocessore Intel al suo interno
  • l’inserimento del logo Intel nelle campagne pubblicitarie degli OEM.

Si noti ad esempio, in questa recente campagna pubblicitaria di HP per nuovi notebook e tablet, la presenza ben visibile del logo Intel:

marketing B2B brand Intel Inside advertising

I consumatori potevano anche non conoscere le caratteristiche tecniche del microchip Intel del loro PC appena acquistato, ma quel logo ai loro occhi significava senz’altro qualità, affidabilità e performance.

 

L’integrazione di un modello B2B con una comunicazione B2C: i risultati

Raccontata oggi, siamo davanti ad una storia di successo, ma le resistenze all’interno di Intel verso le proposte di Dennis Carter all’inizio erano fortissime.

Una vera cultura del brand era assente allora tra le aziende B2B interne alla filiera produttiva.

L’idea di valorizzare un brand per un microchip sembrava troppo rischiosa, tanto più che era previsto un investimento iniziale da parte di Intel di ben $ 250 milioni.

Infine, vi era grande incertezza sulla possibilità di costruire un sistema di partnership con i clienti (gli OEM) intorno al programma Intel Inside.

Lanciato nel 1991, il programma fu un immediato successo. Alla fine dell’anno successivo, ben 500 OEM aveva aderito al programma, e il 70% della pubblicità degli OEM rivolta al cliente finale includeva il logo Intel.

Il magazine Advertising Age definì Intel Inside “il più efficace programma di coop advertising della storia”. Il logo Intel appariva persino in uno spot prodotto da George Lucas, in uno spot trasmesso al Super Bowl, e persino nei cartoon dei Simpson.

Insomma, con Intel Inside il logo di quello che era considerato fino a pochissimi anni prima un componente industriale commodity, era diventato un’icona.

L’impatto di Intel Inside in numeri

Per dare un’idea dello straordinario impatto di questa innovativa strategia di marketing, guardiamo un po’ di numeri. Nel 1992, primo anno del programma, le vendite globali erano già cresciute del +63%.

Il valore di capitalizzazione in borsa di Intel era di circa 1 miliardo di dollari nel 1991, prima che partisse il programma di branding Intel Inside. Nel 2003 tale valore si era quintuplicato.

Gli acquirenti finali di PC in Europa conoscevano il marchio Intel solo nel 24% dei casi nel 1991, prima dell’avvio del programma. Già dopo 4 anni questa percentuale era salita al 95%

Gli impatti positivi della geniale strategia di marketing sono rimasti e si sono consolidati nel tempo: nella classifica dei brand globali di maggior valore stilata dalla società specializzata Interbrand, Intel figura oggi al 12° posto in assoluto, superando brand come Facebook, IBM e Nike.

 

 


Condividi