Avrete spesso letto statistiche preoccupanti sul tasso di mortalità delle startup.

Di solito sono un po’ vaghe, si direbbe “spannometriche”, ma comunque non incoraggianti, del tipo “il 99% delle startup fallisce”.

Più raramente sono basate su dati provenienti da un campione accurato, ma il quadro resta sempre lo stesso: le probabilità di sopravvivenza nel tempo di una startup sono comunque limitate.

Un dato significativo proviene da un’analisi riportata sul libro “The Invincible Company” di Alexander Osterwalder.

Le probabilità di fallimento delle startup

L’analisi è riferita alle startup statunitensi sulle quali hanno investito società di venture capital (VC) specializzate nella fase early stage, nel periodo 2004 – 2013.

Risulterebbe che nel 65% dei casi le startup falliscono, bruciando l’intero capitale degli investitori. Nel 25% dei casi danno un ritorno del tutto mediocre, non superiore a 5x. E siamo già ad un 90%.

Nel 6% dei casi danno un ritorno in un range 5 – 10x. Nel 2.5% dei casi il ritorno è in un range che comincia a essere appetibile per gli investitori: 10 – 20x. Nel residuo 1.5% danno un ritorno superiore a 20x.

Sono cifre che dipingono una realtà dura, dove il successo è improbabile. Ricordiamo poi che l’analisi include solo startup che sono già in uno stadio avanzato, tale da attrarre gli investimenti del venture capital. Se considerassimo invece tutte le startup, anche quelle che non arriveranno mai a sedersi ad un tavolo a negoziare con i fondi di VC, quei dati non potrebbero che peggiorare.

Fallimento delle startup: il significato e il valore dei dati statistici

Potremmo includere qui numerose altre statistiche, ma nessuna sarebbe un punto di riferimento, soprattutto per una startup italiana oggi.

Nel tempo le probabilità di successo cambiano al variare della situazione economica, dei trend tecnologici, e di tanti altri fattori. Vi è poi il fattore geografico: non tutte le startup nascono a Silicon Valley.

E poi va considerata la variabile della industry: sono statistiche che includono di tutto, ma se state per lanciare come prodotto un marketplace per prodotti fashion, vi interessa davvero un dato medio che includa startup nei settori della biotecnologia, della robotica, etc.?

In ogni caso, tutti i dati suggeriscono – sia pure in misura diversa – di non farsi troppe illusioni sulle probabilità di sopravvivenza di una startup nel tempo.

Come regola generale, ma evitando di essere troppo “spannometrici”, si potrebbe affermare che il 20% chiude nel primo anno e il 50% chiude nei 4 anni successivi.

Dopo 5 anni, solo il 30% delle startup sarà ancora vitale. Ma questo non vorrà dire che gli investitori staranno brindando: la maggior parte saranno società rimaste faticosamente a galla, e in rarissimi casi saranno diventate unicorni, ovvero startup di estremo successo, di quelle valutate dagli investitori almeno 1 miliardo di dollari.

Il fallimento delle startup: le cause

Insomma, è inutile andare a caccia di dati statistici. Se intendete lanciare la vostra startup, in ogni caso nessuna statistica potrà incoraggiarvi: lo avete capito.

È più interessante, e soprattutto più utile, capire perché le startup falliscono.

Un elenco con venti cause di fallimento lo riporta Steven H. Hoffman, CEO di Founders Space, il più importante incubatore al mondo, nel suo libro “Surviving a startup“.

L’elenco a sua volta proviene da una ricerca statistica condotta da CB Insights, che ha analizzato post mortem oltre un centinaio di startup fallite.

In quest’articolo ho voluto però fare un passo in avanti, e riclassificare il lungo elenco in cluster, suggerendo anche alcune utili letture sull’argomento. E ho voluto aggiungere due cause in più, portando l’elenco a 22.

Siete pronti per questa galleria di errori fatali da incubo? Cominciamo.

 

IL PRODOTTO

La startup non riesce a individuare il product-market fit

È la causa più comune di fallimento, individuata dalla ricerca CB Insights nel 42% delle startup fallite. Perciò, se c’è una sola cosa che deve restarvi in mente da quest’articolo, è proprio questa: senza un adeguato product-market fit, la vostra startup è già condannata.

In concreto, stiamo dicendo che l’azienda ha puntato su un prodotto che non trova un cliente.

Accade spesso perché i founder sono innamorati del loro prodotto, senza verificare se risolva un problema ad uno specifico segmento di clientela, o se risponda ad un bisogno effettivo del mercato, o se esistano clienti che lo apprezzino al punto tale da essere disposti a pagare e non solo a visitare il sito (classica vanity metric).

E si tratta di un problema così evidente, ma pericolosissimo, che praticamente tutti i guru in fatto di startup predicano a ragione metodologie lean, con un approccio sperimentale: testare prototipi, validare ipotesi, entrare in contatto con il cliente anche con un prodotto che non sia quello finale, definito Minimum Viable Product (MVP).

La prima e più importante assumption che i founder devono quindi verificare, e non con un questionario tra amici o contando sulla propria intuizione, è che per il prodotto a cui vogliono dar vita esista realmente un segmento di mercato (product-market fit).

Un utile tool in questo senso è il Value Proposition Canvas, che serve proprio ad evitare pericolosi innamoramenti per prodotti che non hanno un futuro.

Lettura consigliate: “Testing business ideas” di Alexander Osterwalder.

La startup lancia un prodotto debole

Magari il product-market fit era perfetto sulla carta, e l’MVP sembrava promettente, ma il risultato finale immesso sul mercato è un prodotto povero nella realizzazione. Non sempre si può dar vita ad un prodotto “wow”, ma è in quella direzione che ogni startup dovrebbe puntare.

 

LE RISORSE

La liquidità a disposizione della startup si esaurisce

Questa è la seconda causa di fallimento più comune delle startup, dopo l’assenza di product-market fit, in base ai dati della ricerca CB Insights. Ed in effetti è l’incubo di ogni cofounder.

E per questo i founder devono avere sempre ben presente il burn rate della startup. È un indicatore finanziario brutale ma di massima importanza, il cui calcolo non è poi così difficile: ci dice semplicemente quanta liquidità la startup brucia ogni mese.

Un esempio?

La vostra startup incassa per ricavi circa € 10.000 al mese. Tra spese per il personale e ulteriori spese varie (affitto, licenze per il software, etc.), ogni mese vi sono uscite di cassa per € 60.000.

In un dato momento, grazie alla liquidità investitori esterni, sommata al capitale apportato dai founder, la startup ha a disposizione € 1 milione.

Bruciando liquidità ad un ritmo di € 50.000 ogni mese (60.000 meno 10.000), la startup ha davanti a sé 20 mesi di vita prima di restare senza risorse finanziarie.

Quei 20 mesi sono il cosiddetto runway della vostra startup, il conto alla rovescia prima della fine per illiquidità.

La soluzione migliore per ridurre il burn rate e allungare quindi il runway? Che i ricavi comincino a incrementare, apportando più liquidità mensile, andando verso quel punto in cui l’ingresso mensile di liquidità diventi superiore all’uscita mensile di liquidità. Facile a dirsi…

La startup non riesce ad attrarre investitori e capitali

È una delle cause di mortalità delle startup più temute, al punto che i founder sono costantemente focalizzati – in parallelo allo sviluppo del prodotto – nel reperimento di capitali di rischio.

Purtroppo la realtà è che, anche se l’idea di business è solida, la nostra startup si trova ad operare in un settore nel quale angel investor e fondi di venture capital hanno perso interesse, perché intravedono ritorni più ridotti o maggiormente a rischio.

Lettura consigliata: “Angel” di Jason Calacanis. Uno dei più noti angel investor di Silicon Valley scava a fondo nello spinoso argomento degli investimenti in startup e delle relazioni tra startup e investitori.

La startup attrae troppi investimenti e troppo presto

Questa è la causa di fallimento più controintuitiva, e forse la più insidiosa in assoluto. Al punto che non appare nemmeno nell’elenco della ricerca CB Insights.

È una sorta di killer della startup al quale vengono ingenuamente spalancate le porte.

Lo spiega bene Steven S. Hoffman: “Con una grossa infusione di liquidità la startup inizia ad assumere, a incrementare le spese… Ma il problema arriva quando non è stato ancora individuato il product-market fit. Entrare in modalità scale-up senza aver compreso ciò di cui ha davvero bisogno il cliente equivale ad una sentenza di morte per la startup.”

La prematura disponibilità di importanti capitali illude i cofounder che la sfida maggiore sia ormai alle spalle, e allora premono l’acceleratore sulla crescita. Si defocalizzano così dal cliente e dalla value proposition, e costruiscono – bruciando risorse – su un modello non ancora validato, su assumption tutt’altro che dimostrate.

La priorità assoluta di una startup prima di entrare in fase scale-up. ricordiamolo, è sempre il raggiungimento del product-market fit.

La location è sbagliata

Sembra assurdo, nell’era dello smartworking e dell’e-commerce, parlare di location. Ma in certi specifici settori o in certi momenti storici può essere il fattore che fa la differenza. E in un certo senso, per certi modelli di business – si pensi al retail – la location è una vera e propria risorsa.

Ma il discorso location può essere insidioso anche per le startup digital-only.

Numerose startup sono fallite semplicemente perché erano nel contesto sbagliato, un contesto che non supportava il rischio d’impresa con le giuste opportunità di networking, circolazione di idee, contatti con investitori, agevolazioni governative.

Se tante imprese innovative si sono concentrate e sono cresciute rapidamente in quell’incredibile ecosistema che è Silicon Valley, una ragione c’è.

 

IL FATTORE UMANO

La startup non dispone del giusto team

Si tratta di una causa della mortalità delle startup così rilevante che solitamente la qualità del team è proprio ciò a cui guardano per prima cosa angel investor e fondi di VC, subito dopo l’idea di business.

E non a caso, nella ricerca CB Insights, è la terza causa di fallimento delle startup, dopo l’assenza di product-market fit e l’esaurimento della liquidità.

La mancanza di skill all’interno del team, il disallineamento, la condivisione degli obiettivi e dei valori, l’incapacità di execution: tutti elementi che possono distruggere una startup, anche quando basata su un’idea di business vincente.

Il team perde la capacità di focalizzarsi su ciò che è davvero prioritario

Le startup con maggiori probabilità di successo sono quelle che hanno individuato una o pochissime priorità, le hanno ben chiare in mente, e sono laser-focused sugli obiettivi connessi a quelle priorità.

Un esempio virtuoso è Salesforce, che mentre stava sviluppando agli inizi la sua piattaforma di CRM (customer relationship management) che sarebbe poi divenuta leader di mercato, ricevette un’offerta multimilionaria da un’azienda che chiedeva un prodotto customizzato. Certamente quell’iniezione di liquidità sarebbe stata molto gradita in quella fase di vita della startup, ma Salesforce ebbe il coraggio di declinare l’offerta per evitare di de-focalizzarsi dall’obiettivo di creare il miglior CRM al mondo.

E la storia ha dato ragione alla loro scelta.

Uno o più cofounder crollano per il “burnout”

Per le persone assorbite dal lancio di una nuova attività imprenditoriale, il rischio di bruciare troppo presto le proprie energie ed entrare in una condizione di esaurimento psichico è dietro l’angolo. Se è vero che creare una startup richiede dedizione e focus totale, è nell’interesse della stessa startup che i membri del team mantenga un minimo essenziale livello di work-life balance.

Saper staccare di tanto in tanto durante la giornata, prendersi un giorno alla settimana per ricaricare le energie, tenere sotto controllo i livelli di stress e di ansia, sono pratiche utili per sé stessi come persone, ma anche per la nostra startup

Il team ha problemi di comunicazione e allineamento al suo interno o nella relazione con gli investitori

La coesione del team è un fattore chiave. Se viene a mancare, occorre subito intervenire, prima che il problema cresca al punto da fare implodere la startup.

Ma è altrettanto importante il dialogo e l’allineamento con gli investitori. Nel già citato libro “Angel” di Jason Calacanis troverete la narrazione d numerose vicende in cui brillanti startupper hanno distrutto la loro creatura per la loro incapacità di tenere correttamente informati i loro investitori, a volte mancando anche della necessaria trasparenza.

Nel team viene a mancare la passione

Poche cose sono più logoranti di creare da zero un’impresa innovativa. E se nei founder non c’è la fiammella della passione, è impensabile affrontare i momenti inevitabili da montagne russe che si vivono in quest’avventura.

Il già citato Steven S. Hoffman, autore di “Surviving a startup”, spiega che fra le tante ragioni per creare una startup – arricchirsi, cambiare il mondo, creare momenti eccitanti nella propria vita, essere il capo di sé stessi – l’unica che davvero crei una solida motivazione è la passione bruciante per risolvere uno specifico problema del cliente.

Incapacità di far leva sul network

Pur disponendo di un potenziale network, la startup fallisce in quanto non è capace di utilizzarlo a vantaggio dello sviluppo del business. Vi sono startup che hanno coinvolto al loro interno advisor dotati di un importante patrimonio di contatti, ma che non hanno saputo riconoscere e sfruttare le relative opportunità.

 

IL MERCATO

La startup viene sorpassata dalla concorrenza

Viviamo in un mondo iper-competitivo: teniamolo sempre in mente.

Provate a dare un’occhiata a quante startup propongono lo stesso servizio o prodotto, pensando di essere fortemente differenziate dalle altre. È facile – nel pitch deck presentato ai potenziali investitori – inserire la nostra startup nella mappa di posizionamento in quell’angolo in alto a destra, ben distanziata da tutte le altre.

Ma la realtà è a volte diversa da quella che raccontiamo su una pagina di Powerpoint. E può distruggere la startup.

E poi la concorrenza può apparire in qualsiasi momento. Quel settore che ci era apparso ancora un territorio inesplorato potrebbe affollarsi rapidamente, anche di concorrenti che semplicemente copiano il nostro prodotto, e il nostro essere stati pionieri non è più un vantaggio, anzi.

Oppure, basterà che la nostra idea di business sia sviluppata da una big corporation, che non ha i nostri problemi di reperimento di risorse, e ci troveremo schiacciati in un attimo, senza alcuna possibile leva competitiva a disposizione.

La strategia e l’execution di marketing impediscono al prodotto di decollare

Sia chiaro: il punto di partenza di una startup è sempre il prodotto, in connessione al cliente. Il prodotto deve funzionare. Il prodotto deve avere fit col mercato. Il marketing viene solo dopo.

Ma è rischioso trarne come conseguenza l’illusione che, se il prodotto c’è, i clienti ne riconosceranno il valore e automaticamente busseranno alla nostra porta. E pensare quindi che strategia ed execution di marketing siano del tutto secondari, come fattore di successo della startup.

La strada, lungo il customer journey, dall’awareness (quando il mercato ignora l’esistenza stessa del nostro prodotto) sino al punto finale, in cui il cliente non solo ha generato ricavi ma è anche fidelizzato, è lunga e richiede focalizzazione, tempo e l’opportuno livello di investimenti.

La startup non conosce il suo cliente

Errore imperdonabile. Costruire una startup chiusi in una torre d’avorio, lavorando solo su fogli di Excel e Powerpoint, è davvero rischioso. Come afferma Steve Blank: “No startup business plan survives first contact with customers“.

Entrare in contatto col cliente, conoscere il cliente, raccogliere dati essenziali, definire con chiarezza la buyer persona: sono tutti passi essenziali.

Non a caso un vantaggio in più per una startup si ha quando uno dei founder è un super-customer, un super rappresentante dek customer segment al quale intendiamo rivolgerci. E quindi capace di cogliere in prima persona il problema da risolvere, e come il prodotto in sviluppo deve fornire una soluzione.

Lettura consigliata: “The startup owner’s manual”, di Steve Blank, interamente dedicato alle fasi di customer discovery e customer validation.

Il timing del go-to-market è sbagliato

Si tratta della causa di fallimento più insidiosa e sottile. Il giusto prodotto, col giusto team, col giusto lancio, può essere un flop solo perché si è arrivati un po’ troppo presto, ed il mercato non è ancora maturo. Oppure perché è un po’ troppo tardi.

Occorre ammettere che a volte le startup, quelle diventate poi grandi aziende, Big Tech, hanno avuto – oltre ad indubbi meriti – anche la fortuna di essere sul mercato al momento giusto.

Non è un caso se nei pitch deck delle startup per gli investitori sia spesso inserita la chart “Why now?“.

 

IL BUSINESS MODEL

La startup è costruita su un modello di business sbagliato

A volte, semplicemente, la startup è costruita sul modello di business sbagliato.

È bene che la startup sia pronta, qualora vi siano evidenze supportate da dati, a rivedere radicalmente uno o più dei building blocks del suo business model.

La revisione parziale o totale dell’architettura della startup può essere un processo difficile e doloroso, ma ci evita di dedicare risorse, energie e tempo ad un qualcosa che non ha alcuna chance di sopravvivenza sul mercato.

Si tratta allora di gestire una fase di pivot, ma anche lì si annidano dei rischi: ne parleremo al prossimo punto.

Un prezioso strumento per la valutazione del modello di business è il Business Model Canvas.

Lettura consigliata: “Business Model Generation” di Alexander Osterwalder e Yves Pigneur, il libro che ha divulgato in tutto il mondo il Business Model Canvas.

Il pivot fallisce

Ne abbiamo parlato prima: modificare uno o più elementi del business model, come il segmento di clientela al quale ci rivolgiamo o la proposta di valore, è una scelta difficile ma a volte necessaria nei primissimi momenti di vita di una startup. Ma gestire un pivot, ache se appare facile sul vostro Business Model Canvas, è tutt’altro che facile nella realtà.

Può diventare una delle cause del fallimento della startup.

La startup potrebbe mancare delle risorse o delle skill necessarie per il nuovo business model che si va a costruire. I founder potrebbero perdere interesse, perché erano innamorati del modello precedente. Insomma, sotto un certo punto di vista, fare pivot è un po’ ripartire da zero, e questo già da solo è sufficiente a bruciare energie e motivazione.

La startup non procede con l’opportuno pivot

Questa è un’altra causa di fallimento della startup, da non confondere con la precedente. In questo caso il problema non è che la startup non sappia gestire il pivot, ma che semplicemente non lo faccia, anche quando i dati e i fatti suggeriscono con chiarezza che è il caso di cambiare percorso.

Rimanere cristallizzati sullo stesso business model quando ormai è troppo tardi, non voler cambiare per inerzia, é una non-decisione che condanna la startup ad un rapido declino, trasformandola in una macchina che brucia la liquidità residua senza speranze per il futuro.

Errori nel pricing del prodotto/servizio

Non è raro che i prezzi siano fissati in base a criteri non oggettivi, non supportati da dati. Questo può portare i founder a eccedere in un senso o nell’altro il price point ottimale. Si potrebbe così avere una situazione di overprice, che blocca le vendite, o di underprice che non massimizza i ricavi e potrebbe persino danneggiare la profittabilità del modello di business.

Lettura consigliata: “Disciplined Entrepreneurship” di Bill Aulet, che affronta con taglio pragmatico argomenti quali il pricing framework e il lifetime value (LTV), e come calcolarli.

 

QUANDO LA CAUSA E’… UNA CAUSA

Completiamo il nostro elenco di cause di fallimento delle startup prendendo in considerazione gli impatti degli aspetti legislativi e normativi.

La startup fallisce per cause legali di origine interna o dovute alla concorrenza

Vi sono startup fallite per cause legali, lunghe e costose, determinate da contenziosi con i dipendenti o gli investitori.

E non dimentichiamo che la concorrenza, se potrà attaccarci sul fronte legale, potrebbe non esitare un momento. Una situazione classica nei settori tecnologici è quella di cause inerenti ai brevetti.

La startup è impattata dagli organi regolatori esterni

Il business model costruito non vive in un vuoto pneumatico, ma è inserito nell’ambiente, e nell’ambiente rientrano tutta una serie di enti governativi, della pubblica amministrazione e legislativi, che fanno – piaccia o non piaccia – il loro lavoro.

E non tutte sono in grado di potersi muovere disinvoltamente nel vuoto legislativo dei paesi come è accaduto per Uber.

Sono rischi da tenere sempre in considerazione, anche perché per sua natura una startup innovativa si trova facilmente a muoversi in mercati o contesti non ancora ben regolamentati, e questa è una sfida aggiuntiva della quale occorre tenere conto

Una sorta di startup eccellente è stata Libra, un progetto nato da Facebook nel 2019 con l’obiettivo di creare una nuova criptovaluta. In questa “super startup” partecipavano, oltre che Facebook, anche aziende come Mastercard e Paypal.

Ma quando nello stesso anno i ministri delle finanze del G7 hanno espresso preoccupazioni per l’idea di vedere Facebook trasformarsi in una banca centrale sovranazionale dotata di una propria moneta digitale, le società associate al progetto hanno fatto un passo indietro, e a distanza di un paio di anni Facebook ha dovuto chiudere il progetto.

Conclusioni

Si completa così la galleria delle cause di fallimento delle startup. Cause che non vanno mai sottovalutate, nemmeno quando una startup sembra essere destinata a diventare un unicorno.

Un esempio? Prendete Quibi, nata nel 2018.

I cofounder? Due nomi d’eccezione: Meg Whitman, ex CEO di eBay, e Jeffrey Katzenberg, uno de più importanti produttori di Hollywood, già cofounder della Dreamworks.

Gli investitori? Affianco ad aziende come Walt Disney e Alibaba, nomi come Disney and Alibaba, Steven Spielberg e Jennifer Lopez.

Capitale raccolto per il lancio? Tenetevi forte: $ 2 miliardi. Avete letto bene: miliardi, non milioni.

Il sogno? Rivoluzionare il mondo dei media lanciando un servizio streaming on demand, esclusivo con smartphone, con distribuzione di short content.

fallimento startup quibi causeRisultato? Nel 2020 la startup chiude. Dopo appena due anni il sogno è già finito.

Le cause?

C’è un ottimo articolo sul magazine online “The Verge”, che elenca 11 ragioni per spiegare l’inaspettato fallimento di una startup che sembrava nata per rivoluzionare l’industry globale dei media. Date un’occhiata, e vi renderete conto che le ragioni sono tutte riconducibili alla lista esaminata in questo articolo.

Contenuti mediocri, prezzo dell’abbonamento mensile eccessivo, una comunicazione di marketing davvero scarsa, i due cofounder in conflitto sin dall’inizio, e così via: gli ingredienti per un fallimento da 2 miliardi di dollari c’erano tutti.

Questo per dimostrare che nessuno può ritenersi al sicuro da errori fatali come quelli sopra elencati. L’unico modo per minimizzare il rischio è proprio riconoscerli nelle prime fasi di vita della startup, e intervenire tempestivamente, prima che il danno sia irreparabile.

 

 

 

 

 

 

 

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