Nella storia dell’industria dell’entertainment, si è assistito alla continua evoluzione ed affermazione di diversi modelli di business. È interessante la dinamica che si è sviluppata, in particolare, per i modelli di business dei distributori di contenuti audiovideo.
In questo articolo esploreremo, per ragioni di brevità, i più comuni modelli, quelli sui quali si basa il business di broadcaster e piattaforme grazie alle quali molti di noi come utenti sviluppano quotidianamente content experiences, ma teniamo sempre in mente che in realtà i modelli sono ben più numerosi.
Anzi, sono concettualmente possibili ulteriori business model che aspettano solo di essere “inventati”, e con i quali in futuro nuovi player potrebbero mettere in crisi i leader del settore di oggi, gli incumbent, e persino riscrivere le regole del gioco del settore. Fino a generare disruption.
Non ci sarebbe nulla di strano: come vedremo, nell’entertainment audiovisivo l’innovazione del modello di business è ciò a cui assistiamo da oltre un secolo!
Non entreremo in specifici chiarimenti su cosa sia un modello di business né illustreremo il Business Model Canvas al quale faremo spesso riferimento, rimandando ai diversi articoli che potrete trovare su questo sito.
Il modello di business nel cinema
L’industria del cinema è tutt’oggi costruita sullo stesso modello di business che si è visto sin dalle sue origini. Sin da quando, quel 28 dicembre del 1895, i fratelli Lumière organizzarono la prima proiezione pubblica a pagamento a Parigi: per un franco i clienti del Grand Café di Boulevard des Capucines potettero assistere alla proiezione di 10 cortometraggi nell’arco di 25 minuti!
Il modello, ad oggi, non è sostanzialmente cambiato, almeno nei suoi fondamentali. Tutto sommato è un modello che non fa altro che replicare quanto già da qualche secolo avveniva già nei teatri: c’è una rappresentazione teatrale (il contenuto) che consente una content experience per la quale il pubblico paga un biglietto.
Certo, nella moderna industria cinematografica la filiera è un po’ più complessa. C’è un produttore, che investe propri capitali e al contempo cerca ulteriori fonti di finanziamento, sceglie il regista e crea il film, il contenuto.
Poi c’è un distributore, che funge da intermediario tra produttore e sale cinematografiche. E infine un gestore della sala cinematografica (o di una catena di sale) nella quale avviene la content experience.
È chiaro che il modello di business del produttore è ben distinto da quello del distributore, e a sua volta distinto da quello del gestore della sala cinematografica. Vediamole e confrontiamole.
Modello di business del produttore cinematografico
Il produttore dà vita al film, e cede i diritti di distribuzione cinematografica ad un distributore a fronte di un compenso concordato e il cui calcolo è fissato nel contratto.
Modello di business del distributore cinematografico
Il distributore rende disponibile il contenuto, e quindi il film, alle sale cinematografiche (il cliente), ottenendo una quota sul box-office realizzato. Nella realtà non basta, come Value Proposition, rendere disponibile un buon film: occorre garantire anche che il film sia adeguatamente supportato da investimenti di marketing per massimizzare gli incassi per la sala cinematografica.
Modello di business del gestore della sala cinematografica
Ultimo attore della filiera è il gestore della sala cinematografica in cui avviene la proiezione, il cui business model è così intuitivo da non aver bisogno di commenti.
Abbiamo visto diversi modelli, d’accordo, ma sappiate che nella realtà questi vengono spesso a sovrapporsi e intrecciarsi nell’ambito della stessa azienda. Infatti, è tutt’altro che raro incontrare aziende cinematografiche che fungono da produttore e al contempo da distributore, distribuendo sia i propri contenuti che i contenuti di altri produttori.
Questo doppio modello di business parallelo (ma altamente sinergico, come potete intuire!) è uno standard per tutti i grandi player globali dell’entertainment e dei media, come Walt Disney, Warner o Universal, che hanno abbracciato una strategia di integrazione verticale.
Il modello di business nella televisione
Il media che ha raccolto l’eredità del cinema (non che il cinema sia defunto!) è stato la televisione.
I primi esperimenti, effettuati dai fratelli Siemens, risalgono al 1877, quindi addirittura antecedenti alla nascita dell’industria del cinema. Ma per la prima trasmissione su una televisione dotata di tubo catodico – quella che si diffonderà in milioni di famiglie in tutto il mondo – occorrerà attendere il 1927, e in Italia il 1939.
Il nuovo elettrodomestico darà nuovo impulso all’industria dell’entertainment dei contenuti audiovisivi, e parallelamente alla sua continua innovazione tecnologica si assisterà alla continua innovazione del modello di business dei broadcaster. Esaminiamoli.
Televisione lineare
La TV lineare è la più semplice modalità di servizio televisivo, il primo storicamente apparso. C’è un broadcaster con un palinsesto di programmi che viene trasmesso attraverso diverse possibili soluzioni tecniche: con un segnale analogico o piuttosto digitale, che viene propagato via terrestre, la comune antenna in Italia, o piuttosto via cavo, come accade negli Stati Uniti.
Nel caso della TV lineare non vi è alcuna forma di possibile interattività: c’è un palinsesto di programmi predefinito dal broadcaster nelle varie fasce orarie, e l’unica interazione possibile per l’utente è quella di… cambiare canale.
In Italia la TV lineare nasce nel 1954 con l’inizio delle trasmissioni di quella che sarà la Rai, quindi con il servizio pubblico, per vedere poi un ulteriore importante sviluppo negli anni 80 con la diffusione della TV commerciale. Alla TV commerciale (a) e al servizio pubblico (b) corrispondono due modelli di business radicalmente differenti.
(a) Televisione commerciale
Il business model della TV commerciale è il classico esempio di multisided platform: c’è un customer segment che non genera revenue, i “telespettatori” non paganti, che diventano però una risorsa chiave, l’audience, che consente ad una concessionaria pubblicitaria (Publitalia, ad esempio, nel caso di Mediaset) di vendere spazi pubblicitari ad un secondo customer segment, gli investitori pubblicitari.
È vero che l’audience non genera, in questo modello, delle revenue, ma in realtà c’è un prezzo che viene pagato per la content experience, non in termini monetari ma in termini di tempo e attenzione. L’audience si presta così a diventare parte di ciò che viene venduto agli investitori pubblicitari. In altre parole, se il servizio è gratis il prodotto sei tu!
(b) Il servizio pubblico televisivo in Italia
Nel caso del servizio pubblico, che pure ha preceduto la TV commerciale, siamo di fronte ad una complicazione. Il modello è sempre quello della multisided platform, ma questa volta i customer segment sono ben tre. Oltre ai telespettatori e agli investitori pubblicitari, c’è… lo Stato italiano (se parliamo del nostro paese).
Esatto. Rai ha un contratto con lo Stato che prevede, a fronte del servizio pubblico erogato, che le venga girata una quota del canone televisivo. Si tenga ben in mente questo punto, nel guardare al Business Model Canvas: queste revenue non provengono dall’audience, in quanto l’utente non paga il canone direttamente al broadcaster.
Nel Business Model Canvas sotto, rispetto a quello precedente, è aggiunta (in arancione) la relazione che si viene a creare con il cliente Stato italiano.
Televisione satellitare
È quella che in Italia abbiamo conosciuto con Sky, il broadcaster che ha rapidamente diffuso nelle nostre città le antenne paraboliche, adatte per recepire il segnale trasmesso. Non ci addentriamo qui negli aspetti tecnici, mentre ci interessa osservare che con la TV satellitare incontriamo un nuovo modello di business.
Siamo sempre nello schema del multisided market, come nel caso della TV commerciale, ma c’è qualcosa di diverso: questa volta gli utenti, per usufruire del palinsesto, pagano un abbonamento.
Il grande vantaggio della TV satellitare, quindi, è questo doppio flusso di revenue: dagli utenti-abbonati e dagli investitori pubblicitari. Ma attenzione: per generare ricavi significativi dagli abbonamenti, occorre raggiungere un elevato numero di abbonati (nel caso di Sky in Italia, 5 milioni) disposti a pagare prezzi di abbonamento piuttosto elevati.
E questo non è pensabile per il broadcaster se non si affrontano costi importanti per fornire un servizio e dei contenuti che giustifichino i prezzi: costi per i diritti televisivi (si pensi allo sport), costi per la produzione interna di contenuti audiovideo, costi per le spese di marketing, costi per disporre di una piattaforma tecnologica di prim’ordine.
Ecco allora il Business Model Canvas della TV satellitare (come sempre, ci focalizziamo sui “building block” più rilevanti):
Precisiamo che il modello fa riferimento alla “classica” TV satellitare, quella che propone ancora un palinsesto predeterminato, e pertanto l’utente può solo, col telecomando, scegliere di cambiare canale. Ma sappiamo bene che da tempo Sky ha ibridizzato il servizio offerto integrando l’offerta con Sky On Demand, col quale ci si sposta su un concetto di televisione molto diverso, del quale ora parleremo.
TV on demand
Lo dice il termine: l’utente decide quale contenuto guardare. Non c’è più un palinsesto predefinito dal broadcaster.
In un certo senso, l’utente può crearsi il suo palinsesto, guardando il contenuto che vuole, un film o un episodio di una serie televisiva, quando vuole, e oggi – aggiungiamo – dove vuole, ovvero dal device che preferisce: la televisione, un tablet, un laptop o uno smartphone.
La TV on demand richiede ovviamente un certo tipo di infrastruttura tecnologica, e non a caso si è affermata solo con la diffusione di internet a banda larga. Le più note piattaforme appartengono a media company globali: Disney+, Netflix, Prime Video (Amazon), Apple TV+, etc. A queste si affiancano poi player locali, quali in Italia: TIMvision, Chili, Mediaset Play, RaiPlay, etc.
Il modello di business è nella maggior parte dei casi semplice: contenuti di alta qualità, grazie all’acquisizione dei diritti di film e serie TV prodotte da terzi ma anche grazie alla produzione in-house, a fronte di abbonamenti al servizio. Qui la key resource per eccellenza è la piattaforma che fa da repository di una quantità immensa di contenuti audio video, piattaforma che deve rispondere perfettamente attivando lo streaming on demand di quel contenuto richiesto in quel momento dal singolo utente tramite un semplice click sulla app.
Questo modello di business è noto con l’acronimo SVOD, ovvero Subscription Video On Demand, ma per quanto sia il più frequente (si pensi a Netflix) non è l’unico possibile quando si parla di video on demand.
Vi sono business model alternativi, nei quali la monetizzazione dei contenuti segue altre strade, e che quindi corrispondono a Business Model Canvas diversi da quello sopra rappresentato. Tra questi, quelli noti con acronimi come:
- AVOD: Advertising Video On Demand, nel quale le uniche revenue sono quelle pubblicitarie, mentre per l’utente l’acceso ai contenuti è gratuito ovvero non viene richiesto alcun abbonamento
- TVOD: Transactional Video On Demand, nel quale l’utente paga un prezzo per l’acquisto del singolo contenuto audiovideo
per non citare i vari PVOD, NVOD, etc.
Finisce così questo nostro breve viaggio. Ma non meravigliamoci se in futuro il mondo dell’audiovideo proporrà forme ancor nuove di monetizzazione dei contenuti, intorno alle quali emergeranno modelli di business mai pensati prima. Un esempio? La blockchain, e quindi gli NFT (non-fungible token) come canale distributivo dei contenuti, scenario approfondito in un articolo nel quale si raccontano le prime esperienze nella industry.