Design Thinking. Termine misterioso, confuso. Sfuggente alle definizioni. Apparentemente coniato più dalle mode del momento che dalle realtà aziendali.

La verità però è che se del Design Thinking avete poche idee, e nemmeno chiarissime, non è colpa vostra. Ma se avete un attimo di pazienza, e siete spinta da una sana curiosità, tra pochi minuti tutto diventerà un po’ più chiaro.

Nulla di strano, dunque, che ci sia della confusione. In fondo, accade anche per termini utilizzati da decenni sia nel mondo accademico che nelle aziende. Pensiamo a termini come strategia o business model: pensate che esista un consenso sulla definizione? Date un’occhiata all’articolo “E’ davvero chiara la differenza tra Strategia e Business Model?“, e resterete sorpresi da quante possibili interpretazioni esistano, pur essendoci ampia letteratura da oltre mezzo secolo.

Ma torniamo al protagonista di questo articolo, il Design Thinking. Facendo un passo indietro nel tempo. Un rapido excursus storico che non sarà tempo sprecato, in quanto vedremo emergere rapidamente tutti gli elementi sottostanti al concetto di Design Thinking.

 

Come nasce il Design Thinking

John Edward Arnold, professore di gestione aziendale di Stanford, fu tra i pionieri nell’utilizzo del termine. Nel suo libro “Creative Engineering” del 1959 ne parlava come di un approccio creativo alla risoluzione di problemi.  E ne parlava con particolare riferimento allo sviluppo di nuovi prodotti: evidentemente il Design Thinking nasceva con una propensione già estremamente pragmatica, mirata al “fare”, e non come puro concetto accademico.

Come vi ho detto, ne vale la pena fare questo passo indietro nel tempo perché, come presto capirete, in fondo l’essenza del Design Thinking non è poi tanto cambiata nel tempo. Il concetto si è via via meglio precisato, questo si.

E infatti, con il professor Arnold, incontriamo il primo elemento, davvero fondamentale:

creatività-nel-problem-solving   approccio creativo al problem-solving

 

 

 

Negli anni ’70 nel mondo accademico si ebbe un importante passo in avanti nella definizione del concetto. Quello che pian piano emerse fu l’idea che l’approccio e i metodi utilizzati dai designers (architetti, urbanisti, designer industriali, etc) potessero avere applicazione più ampia, anche nell’ambito dello sviluppo del prodotto e del business più in generale.

Il concetto di Design Thinking intanto usciva fuori dal mondo accademico (nulla di strano, abbiamo già visto la sua vocazione estremamente pragmatica). Una svolta importante avveniva nel 1991 quando nasceva IDEO, società di consulenza che ha fortemente contribuito alla diffusione del Design Thinking nelle aziende. Si consolidava così la visione del Design Thinking come strumento di innovazione, ovvero come  approccio per creare cambiamento – e generare conseguentemente valore – attraverso il design.

E così abbiamo incontrato altri due elementi preziosi:

 

design-thinking-strumenti-tooll’utilizzo esteso al business di metodi e strumenti propri dei designer

 

 

innovazionetensione verso il cambiamento e l’innovazione, per creare valore

 

 

 

 

Una nota importante su strumenti e metodi propri dei designer. Cosa si intende davvero? Ebbene, la gamma di questi strumenti e metodi è potenzialmente immensa, ma il metodo principale è indubbiamente quello delle iterazioni continue nelle quali si creano prototipi (sempre più raffinati e idonei alla risoluzione dei problemi della persona-cliente, iterazione dopo iterazione) che vengono testati/validati per migliorare la conoscenza della persona-cliente, e avvicinarsi alla alla soluzione ottimale.

Soluzione che deve corrispondere ai 3 criteri di desirability (che soddisfi il cliente), feasibility (che sia effettivamente realizzabile) e viability (che sia economicamente sostenibile). Se volete saperne un po’ di più, vi consiglio l’articolo “Come evitare di lanciare prodotti dei quali nessuno ha mai sentito il bisogno“.

 

Ultimo passo importante fu il lavoro del professor Richard Buchanan, che nel 1992 chiarì che lo scopo del Design Thinking è affrontare le preoccupazioni umane attraverso il design. Preoccupazioni umane? Esatto, anzi le parole precise furono “intractable human concerns”. In sostanza, l’attenzione si spostava sull’aspetto human-centric del Design Thinking. Abbiamo così il quarto e ultimo elemento, che si ritrova spesso in tante definizioni:

design-thinking-umano-centrico-clienteè un approccio umano-centrico, che fa costantemente riferimento ai bisogni, desideri e preoccupazioni delle persone, per identificare soluzioni ai loro problemi

 

 

 

Design Thinking come integrazione dei 4 elementi

Come promesso, questo rapido excursus storico non era fine a se stesso, perché ci ha consentito di individuare 4 elementi che in sintesi sono:

  • Il Design Thinking consiste in un approccio creativo per il problem-solving
  • Il Design Thinking mette al centro le persone con i loro problemi
  • Il Design Thinking utilizza metodi usati dai designer, in particolare la prototipazione e l’iterazione
  • Il Design Thinking crea valore attraverso il cambiamento e l’innovazione

 

Una volta che avrete assimilato bene questi 4 elementi, potrete incontrare tante definizioni anche diverse di Design Thinking (andate su Google e auguri: con le keywords “design thinking definition” si supera il mezzo miliardo di risultati nelle SERP), ma alla fine riconoscerete sempre quei 4 elementi: creatività nel problem-solving, human-centricity, tool propri dei designer, innovazione per creare valore.

Alla fine, buona parte dell’incertezza nasce dal fatto che il termine Design Thinking si applica allo stesso tempo ad un mindset (utilizzo di creatività per cercare soluzioni a problemi complessi) e ad un processo (utilizzo di strumenti propri dei designer nel business).

E in fondo il Design Thinking non è altro che un mindset creativo che si concretizza in processi mirati a risultati. Lo possiamo guardare sotto due lenti diverse, ma una non avrebbe senso senza l’altra. L’applicazione della creatività non implica un processo illogico e romanticamente spontaneo:  al contrario il processo è estremamente disciplinato, e la creatività si applica con metodo e rigore, senza mai perdere di vista gli obiettivi. Un puro mindset creativo senza strumenti o senza processi sarebbe del tutto sterile nel mondo aziendale.

Alla fine, si potrebbe tentare una definizione di sintesi. Qualcosa come:

  • il Design Thinking è un mindset e al contempo un metodo per creare valore tramite una innovazione che mira a risolvere creativamente i problemi delle persone-clienti utilizzando strumenti propri dei designer (in particolare di continua prototipazione e verifica tramite iterazioni).

 

Ma sono convinto che il pensiero visivo possa anche in questo caso aiutarci ad avere una visione d’insieme più immediata e chiara senza perdere di vista i singoli elementi, e allora proviamo a rappresentare i 4 elementi tenendo al centro, ovviamente, la persona-cliente con i problemi che intendiamo affrontare. Magari partendo da domande basilari: cosa fa? come lo fa? con quali strumenti? con quale finalità?

approccio-del-design-thinking

 

E voilà, abbiamo tutto. La persona è al centro di tutto, con i suoi problemi che il Design Thinking intende risolvere. La creatività come risorsa. I metodi dei designer (iterazioni e prototipazione) come strumenti. La creazione di valore tramite l’innovazione come finalità.

Chiedetevi a questo punto quanti di questi elementi si ritrovano nei processi di sviluppo prodotto o cambiamento dei modelli di business che avete visto in atto nelle aziende. Riflettere su questa domanda aiuta a definire ancora meglio cosa differenzia il Design Thinking rispetto ad altri approcci. Ma ne parleremo in una prossima occasione.

 

 

Se vi ha interessato il tema del design thinking, potete trovare un utile approfondimento nell’articolo “Capire il design thinking con il double diamond“.

Da segnalare anche “Applicare la creatività nel design thinking“.


Condividi