Cos’è il design thinking? A cosa serve?

Certamente molti di voi si saranno imbattuti in questa espressione, restando un po’ confusi. Chiariremo allora di cosa si tratta, illustreremo i principi sottostanti, e spiegheremo perché è un approccio interessante per le aziende (ma potenzialmente anche nelle nostre vite).

Ma facciamo prima un piccolo passo indietro.

Cosa è il design

La confusione nasce dal fatto che noi italiani associamo generalmente il termine design alla progettazione di oggetti, per lo più fisici, realizzata magari con un tocco di eleganza e originalità.

Provate a chiedere in giro, e scoprirete che per molti il termine design evoca oggetti di arredamento, magari realizzati alla ricerca dell’elemento novità, o dando priorità all’estetica. Inoltre. osserverete come il design fa pensare immediatamente all’atto del “disegnare”, e immaginano il designer al lavoro con una matita o con un mouse.

Tutto questo corrisponde ad una visione distorta ed estremamente limitata del design, e fa sorridere l’idea del designer che privilegi l’estetica alla funzionalità, quando invece il design nasce proprio per rispondere alle necessità dell’utilizzatore dell’oggetto che viene progettato.

Ora, in questo articolo non entreremo nel merito della definizione di design, anche perché c’è e ci sarà sempre un certo dibattito. E alla fine dipende tutto dal contesto in cui si intende utilizzare il termine. Per avere un’idea di quanto sia sostanzialmente impossibile convergere su una definizione di design, vi segnalo l’articolo “Can we define design?“.

Per quanto ci interessa al momento, l’importante è che abbiate compreso che il design non consiste nel disegnare oggetti, ma ha un significato ben più ampio. Ma una definizione ve la propongo:

il design è un processo di problem-solving, sviluppato immaginando e realizzando ciò che prima non esisteva, e che ha come obiettivo modificare deliberatamente elementi dell’ambiente affinché siano soddisfatti i bisogni dell’individuo o della comunità nel ruolo di utilizzatori. 

Per elementi dell’ambiente intendiamo tutto ciò con cui l’utilizzatore interagisce: prodotti e servizi, oggetti fisici ed oggetti digitali, persino sistemi complessi.

Ma è ora di parlare di design thinking.

Cosa non è il design thinking

Perché abbiamo parlato di design e di designer?

Perché il design thinking è una metodologia nata per affrontare problemi complessi, applicando l’approccio che i designer hanno nella progettazione.

Un approccio che, come avrete già compreso, è orientato all’innovazione.

Naturalmente sono possibili anche altri generi di approccio, ed è bene citarli: ci aiuterà per capire – per differenza – cosa è il design thinking.

Engineering thinking

È il pensiero ingegneristico. È molto comune, e nella maggior parte delle situazioni è terribilmente efficace. È la razionalità che si applica alla ricerca di soluzioni, o meglio della soluzione, quella giusta, spesso unica. Per intenderci, se stiamo progettando un ponte, dovremo calcolare tramite precise equazioni certe variabili, e non c’è da applicare una qualche creatività: se il calcolo è sbagliato, il ponte cede.

Business thinking

È un approccio orientato non tanto alla ricerca dell’unica soluzione, quella perfetta, ma di quella ottimale, che molto probabilmente non porta a fare degli errori in base all’esperienza pregressa. È tipico nel mondo del business, dove partendo da alcune risorse limitate cerchiamo di capire come ottimizzare un certo risultato.

Nessun calcolo matematico potrà darci una risposta unica, perché nel business ci sono troppe variabili, gran parte delle quali al di fuori del controllo dell’azienda. È quella forma di pensiero in base al quale si decide, ad esempio, che è più opportuno e meno rischioso investire in quel mercato o in quel determinato business, piuttosto che in un altro.

Research thinking

È il pensiero analitico tipico della ricerca scientifica. Quello che va alla ricerca della comprensione delle relazioni di causa-effetto. Si utilizza la razionalità insieme con il metodo sperimentale, con ben poco spazio per la creatività.

Design thinking

È diverso engineering thinking perché non si tratta solo di individuare la formula corretta da applicare. È diverso dal business thinking perché affronta problemi complessi, in scenari in evoluzione, per i quali non c’è mai stata una soluzione in passato. Ed è diverso dal research thinking perché il pensiero analitico non basta, si ha a che fare con problemi così complessi che deve entrare in gioco una risorsa nuova, la creatività, ed inoltre non è orientato solo al “capire”, ma al “fare”, a creare soluzioni innovative in risposta a problemi apparentemente irrisolvibili.

Cosa avviene nel processo di design thinking

Avrete a questo punto capito che uno degli elementi che definisce il design thinking è l’ambito di applicazione. Non in termini settoriali, ma in termini di complessità: perché ci sono troppe variabili, abbiamo pochi dati, lo scenario è in continua ed imprevedibile evoluzione.

Non applicheremo mai il design thinking per decidere quanto cemento occorre acquistare per costruire un edificio, per capire in che modo la nicotina danneggia le cellule nervose, o per decidere se investire in una nuova linea di scarpe piuttosto che di abbigliamento.

Applicheremo il design thinking laddove è evidente che soltanto l’innovazione può essere una risposta al problema.

E, altro elemento da non dimenticare mai, poiché il design thinking è in stretta relazione col design, resta un processo squisitamente human-centered, nel quale le persone-utenti sono al centro dell’esplorazione.

Il processo di design thinking si svolge lungo un processo, spesso rappresentato da un framework. Ora, esistono diversi possibili framework, e ho voluto in passato dedicare un articolo proprio per illustrare le diverse “scuole” esistenti. Questo non vuol dire che vi sia un framework corretto ed uno sbagliato, e a dirla tutta non esiste un framework rigido e lineare, unidirezionale (questo lo vedremo presto, parlando di iteratività).

Solo per rendere omaggio alla Stanford University, dove il design thinking è stato per la prima volta studiato e strutturato in maniera completa, faremo riferimento al classico modello così rappresentato da 5 fasi:

Design thinking: le 5 fasi del processoVediamo ora il significato delle diverse fasi.

[1] Empathize

Il design thinking è human-centered, e di conseguenza l’approccio migliore per raccogliere informazioni, conoscere il contesto, individuare i problemi, non è solo una arida raccolta di dati, ma soprattutto incontrare le persone-utenti, parlare con loro, mettersi nei loro panni. Insomma, sviluppare empatia. Nel design thinking noi intendiamo risolvere problemi che toccano la vita delle persone.

Attenzione, non stiamo dicendo che fare design thinking sia un approccio “no profit”. Tipicamente il design thinking è applicato dalle organizzazioni aziendali, e quando si parla di persone si parla alla fine di clienti o consumatori. Ci sono quindi, spesso, dei vincoli economici da rispettare, nella ricerca della soluzione al problema dell’utente. Lo vedremo più avanti.

Questa è una fase divergente, da affrontare con la mente aperta all’ascolto, senza filtri, allargando il nostro punto di vista.

[2] Define

Questa è invece la fase convergente, nella quale arriviamo a definire con chiarezza il problema da risolvere. E solitamente la formulazione è molto diversa da quella che ci sarebbe stata se non ci fosse stata una fase di “empatia”.

Ad esempio, ci eravamo resi conto che i nostri clienti hanno un problema di mobilità urbana una volta arrivati in una grande città che non conoscono. Sono confusi, indecisi.

Ma dopo la fase di “empatia” arriviamo a formulare in maniera diversa il problema, che magari all’inizio avevamo attribuito alla mancanza di informazioni, e infatti stavamo già pensando a sviluppare un’applicazione….

E invece siamo arrivati a capire che non è un problema di informazioni. A questo punto avviene un reframing del problema, ovvero lo vediamo sotto uno sguardo del tutto nuovo. Perché abbiamo avuto un insight: i clienti hanno le idee piuttosto chiare, se potessero prenderebbero un taxi, ma l’incertezza sul prezzo della corsa e sull’onestà dell’autista nel selezionare il percorso più economico li disincentiva.

E allora ci chiediamo: come possiamo costruire un servizio innovativo, che consenta di spostarsi in taxi con una chiara idea del costo da pagare alla fine della corsa? Cambia la domanda, radicalmente, e cambiano le risposte, le soluzioni, da ricercare.

[3] Ideate

Siamo ora nella seconda parte del processo, quella della ricerca di soluzioni, che affrontiamo prima in maniera divergente.

Qui entrano in gioco due elementi importanti. Il primo è la creatività: generare quante più soluzioni possibili, anche se inizialmente ci appaiono assurde. Non filtrarle. La quantità, in una fase divergente, viene prima della qualità. E poi da una idea apparentemente assurda potrebbe nascere una idea maggiormente fattibile.

Il secondo elemento è che questa fase, chiamiamola di brainstorming, funziona meglio se avviene nell’ambito di un gruppo multi-disciplinare, dove regna la diversity. Un gruppo che non è composto solo di designer o solo di professionisti di marketing o solo di manager.

Anzi, a dirla tutta, è bene che questa diversity, che genera un’utile contaminazione e accende la creatività, caratterizzi l’intero processo di design thinking, sin dall’inizio.

[4] Prototype

Si entra ora nella fase convergente. Abbiamo generato un elevato numero di soluzioni? Bene, iniziamo a raggrupparle, perché molte saranno simili, e magari lavorando prima in piccoli gruppi le stesse idee sono state espresse più volte da gruppi diversi.

Poi fissiamo dei criteri per filtrarle. Criteri che devono rispondere a principi sostanzialmente di desirability (la soluzione deve essere accettabile per l’utente), feasibility (deve essere tecnicamente realizzabile) e viability (deve essere economicamente fattibile).

Ricordate quando prima spiegavo che il design thinking non è un processo “no profit”, esterno alla logica aziendale? Esatto, è proprio il criterio della viability che a questo punto ci garantisce l’equilibrio tra le esigenze del cliente-utente e le finalità aziendali. Un processo di design thinking che arriva a proporre soluzioni diseconomiche per l’organizzazione è un processo che non ha funzionato correttamente.

E siamo a questo punto arrivati a individuare un numero limitato di possibili soluzioni. Ed ora viene un momento molto importante: prototipiamole. Creiamo prototipi, testiamole in concreto, prima di realizzarle.

[5] Test

Questa fase è strettamente legata alla precedente: è la verifica sul campo dei nostri prototipi, in modo da raccogliere ulteriori informazioni.

Abbiamo ideato un nuovo servizio per i clienti? Incontriamo i nostri clienti e forniamolo in maniera essenziale, in un contesto ristretto. Oppure creiamo una semplice landing page sul web, prima di creare l’intero sito con la piattaforma sottostante.

Abbiamo ideato un nuovo device? Costruiamo un modellino usando persino del cartoncino, solo con le funzioni essenziali, e verifichiamo il feedback da parte degli utenti.

Il design thinking non è un processo lineare

Il limite del framework di Stanford è che visivamente inganna, in quanto dà l’idea di un processo lineare. Il design thinking invece è un processo iterativo. In ogni fase possono emergere elementi tali che può rendersi necessario tornare ad una fase precedente.

Ad esempio, durante la generazione creativa di soluzioni si intuisce che il problema era mal definito. Oppure durante i test si comprende che vin erano soluzioni più valide che erano state tralasciate perché ritenute troppo complesse da realizzare. O durante i test ci si accorge che non erano stati raccolte sufficienti informazioni sul comportamento dell’utente.

Questa iteratività del processo è un punto fondamentale, che non va mai trascurato. Il design thinking richiede un approccio molto diverso dalla pianificazione.

Il design thinking come mindset

Il design thinking in realtà non è solo un processo o una metodologia, ma un vero e proprio mindset, approccio mentale. Anzi, assorbire alcuni principi del design thinking come mindset è fondamentale per garantire il migliore output per il processo.

Questo mindset può essere sintetizzato in 5 punti.

(1) Occorre curiosità

La curiosità invita all’esplorazione, predispone alla raccolta di informazioni, ci aiuta ad ascoltare meglio l’utente nella fase di empatia.

(2) Dare priorità all’azione rispetto al pensiero

La raccolta di informazioni e dati, le schematizzazioni del problema, non servono a nulla da sole. Soltanto il fare le cose, costruire prototipi, testarli, dà un senso al pensiero. Anzi: il pensiero si costruisce con la sperimentazione nel reale, con il fare le cose, col provare senza paura di sbagliare.

(3) Essere pronti a riformulare i problemi

Avevamo già parlato del reframing del problema, e su questo non insisteremo mai abbastanza. Spesso i problemi appaiono irrisolvibili soltanto perché sono stati formulati nella maniera sbagliata.

Mi diverte molto questo esempio: anche nel passato più lontano il volo umano era un sogno che ci si ingegnava a realizzare, ma si ponevano come problema da risolvere quello sbagliato: come fare in modo che l’uomo possa volare come fanno in natura gli uccelli? Di conseguenza tutti i tentativi nell’antichità si orientavano su soluzioni per dotare l’uomo di ali manovrabili.

Anche quel geniaccio di Leonardo da Vinci restava intrappolato in questa formulazione sbagliata. Tant’è che costruì un modello di aliante manovrabile che fece collaudare al suo assistente Tommaso Masini, che si lanciò dal Monte Ciceri, vicino Fiesole, fidandosi ciecamente del Maestro ma fratturandosi disastrosamente le gambe.

Aneddoto che raccontiamo senza nulla togliere alla grandezza di Leonardo, che anzi dimostrava con questo prototipo e il successivo test un vero mindset da design thinker! Naturalmente a spese del povero Tommaso…

La domanda corretta sarebbe stata invece: come può un oggetto, che trasporta al suo interno l’uomo, sostenersi e muoversi nell’aria senza cadere? Questo reframing porta a comprendere che le ali non sono sufficienti, è necessaria una forza, la propulsione, che contrasti la forza di gravità. Ed ecco che allora si intuisce che le ali non bastano da sole, occorre un motore.

E magari, se Leonardo avesse seguito il processo partendo dalla fase di “Empathize”, avrebbe scoperto che per la maggior parte delle persone l’idea di lanciarsi da un monte dotati di ali non era un’idea davvero rassicurante… ma ora torniamo seri.

(4) Essere consapevoli del processo

Ricordare sempre che è un processo, fatto di prove ed errori, nel quale la conoscenza si costruisce tramite creatività e sperimentazione, ed è un processo iterativo, dove occorre essere pronti a fare un passo indietro e ripartire.

E quindi focalizzarsi sulla fase in cui ci troviamo, esserne consapevoli, non avere fretta di arrivare in maniera lineare e rapida alla soluzione perfetta.

(5) Collaborazione

Il design thinker non è solitario. È cosciente dei suoi limiti, e sa bene che soltanto in gruppo diversificato potrà davvero giungere a identificare il problema in maniera corretto e le soluzioni conseguenti.

In conclusione

E ricordate che il design thinking non è una metodologia astratta. Già da tempo viene utilizzata negli headquarter di grandi multinazionali per stimolare l’innovazione. Tra queste ricordiamo Toyota, Apple, Microsoft, Samsung, Bank of America, Pepsi, Nike.

E Google? Pensate che in Google è stato persino costituito un team guidato dal designer Jake Knapp, all’interno di Google Ventures (la società di venture capital del gruppo creata per investire in startup esterne), che ha ridefinito il processo inventandone uno definito di “design sprint”, per testare nuove idee in soli 5 giorni.

 


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