Lo so, il titolo è provocatorio. Ma sia chiaro: nulla di personale contro il marketing. In fondo la mia esperienza professionale è cominciata come “markettaro”.
E poi il marketing è la ragione d’essere dell’azienda. Stiamo parlando della gestione dell’interfaccia con il mercato: cosa c’è di più critico, per la sopravvivenza dell’azienda?
Saper interpretare le esigenze del cliente e tradurle nella corretta combinazione di prodotto, prezzo, comunicazione, distribuzione e promozione è semplicemente vitale per qualunque business model.
Quindi, dicendo “no grazie” non faccio riferimento all’utilità del marketing, né tanto meno al prezioso contributo dei professionisti della disciplina. Intendo invece ragionare sul quel “marketing sempre e ogni costo” e sui rischi connessi.
Quando l’obiettivo sono le vanity metrics
Nel mio passato nel largo consumo ho più volte incontrato situazioni nelle quali l’investimento di marketing aveva come obiettivo il miglioramento di alcuni indicatori, solitamente il fatturato o la quota di mercato. A chi non farebbe piacere, in azienda, vedere la linea di di un grafico impennarsi? Ma attenzione, è lì la trappola.
In questi casi, chiediamoci se stiamo lavorando su reali obiettivi strategici o se invece non li abbiamo sostituiti con vanity metrics a breve termine. Quanti di voi hanno assistito a campagne promozionali – nate evidentemente con obiettivi puramente tattici – nelle quali una volta esauriti gli investimenti di marketing la linea del grafico è rapidamente tornata ai livelli di partenza?

Non accade solo nel largo consumo, ma in numerosi altri mercati, inclusi i mercati dei prodotti digitali nei quali è sin troppo facile ottenere un immediato ma temporaneo miglioramento di indicatori quali visualizzazioni, download, conversioni, acquisti online, spingendo sulla leva del marketing (con SEM, advertising, email marketing, etc).
Se dietro non ci sono idee strategiche chiare e obiettivi ben definiti, il rischio di un utilizzo distorto degli investimenti di marketing è dietro l’angolo. Chiediamoci allora se l’azienda stia realizzando una campagna coerente col piano strategico, o piuttosto se stia investendo per il piacere di stimolare un picco nel nostro grafico di vendite.
Proviamo a rispondere con onestà, ricordando che non è solo un problema di “umana debolezza” ma che spesso la stessa politica aziendale interna spinge in questa pericolosa direzione.
Il prezzo che si paga è ovvio: uno spreco di risorse che non hanno aggiunto nulla né al brand né allo sviluppo del business a lungo termine. Come difenderci…da noi stessi? Il calcolo accurato del ROI degli investimenti potrà fare da cartina di tornasole per la singola campagna, e darci una prima brutale risposta.
Quando il marketing mette la polvere sotto i tappeti
Ma l’utilizzo del marketing motivato soltanto dalle vanity metrics non presenta soltanto il rischio di spreco di risorse. C’è un altro rischio più difficile da percepire e ben più grave.
La buona performance di vendita un prodotto indotta da un uso “dopante” delle risorse di marketing impedisce una obiettiva valutazione dell’efficacia della nostra Value Proposition.
In altre parole i dati ci potrebbero ingannare, mascherando il fatto che il customer a cui ci rivolgiamo si sta lentamente allontanando dalla nostra Value Proposition, non più coerente con i suoi bisogni in continua evoluzione oppure non più competitiva nel mercato.
E’ come se si aprisse una forbice tra le vendite che vediamo (sostenute se non “pompate” dal marketing) e il potenziale effettivo di vendita del prodotto, che è più difficile da calcolare (forse perché preferiremmo non saperlo….).

Il caso delle startup
Insomma, occorre sempre ricordare che la pressione promozionale ha un effetto collaterale: rendere difficile per l’azienda conoscere il potenziale reale della sua Value Proposition, e scoprire solo troppo tardi alcuni seri problemi di product-market fit.
Un caso simile, in un framework molto diverso, viene illustrato da Eric Ries nel suo libro “The Lean Startup“.
Ries spiega bene quanto sia importante per una startup attivare un ciclo virtuoso Build-Measure-Learn, ciclo che consente un processo di apprendimento. Un processo fatto di continue iterazioni che porteranno l’azienda a lanciare sul mercato un prodotto effettivamente corrispondente alle esigenze del cliente per il quale è stato sviluppato.

Come si procede in concreto?
Create il vostro Minimum Viable Product (MVP) per testare le vostre ipotesi di business (quelle sulle quali si basa il business model della startup).
Identificate le metriche che contano davvero per la crescita (non inutili vanity metrics) e misurate la baseline dell’MVP con riferimento alle metriche identificate (esempio: numero di conversioni che si ottengono in condizioni normali in un mese).
A questo punto, misurata la performance dell’MVP, si punta a migliorarlo: una modifica alla volta, naturalmente, in modo da poter identificare correttamente l’impatto sui dati delle metriche!
Ma, punto fondamentale che segnala Ries, tenete fuori il marketing, anche se la tentazione di spingere la performance dell’MVP è fortissima.
Questi investimenti – per quanto efficienti – sarebbero deleteri in quanto altererebbero la lettura delle metriche e quindi ogni possibilità di comprendere se siamo sulla buona strada nello sviluppo del prodotto. Magari potremmo essere di fronte al momento di decidere per una necessaria pivot che assicurerebbe un futuro all’azienda, ma a causa di un marketing entrato prematuramente in gioco, potremmo non comprendere in quale fase decisiva ci troviamo.
In conclusione…
Lo avrete ormai capito: non stiamo affermando che il marketing fa male. Né che gli investimenti di marketing siano risorse sprecate. Il prodotto da solo, anche quando perfetto nel soddisfare i clienti per i quali è sviluppato, non basta. Nel mondo di oggi ipertrofico di informazioni non investire sarebbe impensabile.
Sono passati oltre 150 anni da quando il filosofo americano Ralph Waldo Emerson affermò che è sufficiente che costruiamo la migliore trappola per topi perché i clienti trovino da soli la strada per venire da noi per acquistarla (*) . Oggi un simile pensiero sarebbe semplicemente ingenuo, se non pericoloso.
Conclusioni finali? Facile.
(1) sempre considerare che gli investimenti di marketing hanno sempre un impatto sugli indicatori
(2) questo impatto rende più difficoltosa la percezione dell’adeguatezza della Value Proposition. E questo è particolarmente grave per una startup che sta ancora mettendo a punto il product-market fit
(3) evitare l’auto-inganno di spendere risorse solo per vedere il miglioramento delle vanity metrics: sarebbe un miglioramento solo temporaneo, senza coerenza strategica, e con un alto rischio di spreco di risorse
(4) essere il più possibile disciplinati nel monitorare il ROI degli investimenti di marketing, e nel monitorare gli indicatori che contano davvero.
Certo, poi i markettari imparano presto dove pescare i numeri giusti per valutare ex-post l’efficienza degli investimenti. Quante volte ho visto calcolare il ROI facendo riferimento al prezzo di vendita della singola unità e non al suo margine di contribuzione, ma questa è un’altra storia…
(*) traduzione un po’ disinvolta, in quanto la frase originale di Emerson è “Build a better mousetrap, and the world will beat a path to your door”
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