Ha fatto notizia la recente iniziativa commerciale lanciata da Tiffany & Co, iniziativa ispirata alla nota collezione CryptoPunk. Prima di addentrarci nella meccanica, qualche informazione preliminare sui protagonisti, giusto per capire che stiamo parlando di “pesi massimi”.
Tiffany: un brand storico nei mercati del lusso
Tiffany & Co è una storica azienda di gioielleria statunitense, fondata a New York nel lontanissimo 1837, e acquisita definitivamente nel 2021 da LVMH. Un brand reso immortale dal celebre film del 1961 “Colazione da Tiffany” con una strepitosa Audrey Hepburn.
LVMH è un gruppo francese, leader globale nel mercato del lusso, con un fatturato di 64 miliardi di euro. È stato fondato nel 1988 da Bernard Arnault, classificato da Forbes come secondo uomo più ricco al mondo. Arnault guida tuttora il gruppo come CEO.
In Tiffany & Co ha un ruolo di primo piano il trentenne Alexandre Arnault (nella foto: a destra), figlio di Bernard Arnault (nella foto: a sinistra).
Il giovane manager, considerato il “delfino” della dinastia, è a capo dell’area Prodotto e dell’area Comunicazione di Tiffany & Co.
Nel suo ruolo, Alexandre Arnault ha il compito di modernizzare l’azienda, e pilotarla verso nuovi e più giovani segmenti di clientela. Non a caso, è stato lo sponsor interno dell’iniziativa che stiamo raccontando.
Gli NFT CryptoPunks
Alexandre Arnault è collezionista di NFT, e la sua collezione include un CryptoPunk. Per chi non lo sapesse, i CryptopPunks consistono in 10.000 non-fungible token, e rappresentano una collection particolarmente pregiata: il prezzo minimo per acquistarne uno (il cosiddetto floor price), nel momento in cui scrivo, è di $125,000.
Il CryptoPunk in possesso del manager è il numero 3167:
Già lo scorso aprile il manager aveva mostrato interesse ad avvicinare il brand Tiffany alla collezione CryptoPunk, annunciando su Twitter che era stato realizzato per lui un pezzo unico di alta gioielleria, in oro rosa, zaffiri, rubini e diamanti, ispirato all’adorato CryptopPunk 3167 (che infatti usa come immagine nel profilo):
Un costoso capriccio, tutto sommato non sorprendente per il “delfino” della dinastia Arnault. Ma in realtà dietro quell’annuncio su Twitter c’era molto di più.
Era il classico “segnale debole” di una partnership avviata tra Tiffany e CryptoPunk (esattamente con Yuga Labs, lo studio che a marzo ha acquistato la intellectual property della collezione dalla Larva Labs) sulla quale, a distanza di pochi mesi, l’azienda di gioielleria avrebbe costruito il lancio della sua prima collezione di non-fungible token.
NFTiff, la prima collezione di NFT firmata Tiffany
Nasce così la collezione intitolata NFTiff, composta da 250 elementi.
Ogni NFT può essere acquistato esclusivamente da possessori di CryptoPunk al prezzo (il minting price) di 30 Ether, pari al momento del drop a circa 50.000 dollari. La vendita (e quindi il minting) ha inizio a partire dal 5 agosto 2022.
Ogni NFT funge da pass digitale, e consente al possessore di essere convertito in un pezzo di alta gioielleria davvero unico: un prezioso pendente fatto a mano dagli artigiani di Tiffany, e ispirato al CryptoPunk già in possesso di colui che ha acquistato il NFTiff.
Tiffany realizzerà poi caso per caso un pendente, il cui rendering sarà anticipatamente fatto visionare entro ottobre 2022 al cliente. Il cliente non ha la possibilità, chiarisce il regolamento, di chiedere modifiche al design che gli viene sottoposto.
Verrà poi realizzato il pendente, con l’impegno da parte di Tiffany di utilizzare almeno 30 gemme preziose (come zaffiri, ametisti, etc.), disposte sul pendente in base all’interpretazione “artistica” insindacabile di Tiffany.
La consegna del pendente avverrà a inizio 2023.
Il valore del progetto
Sulla carta il progetto realizzato da Tiffany & Co è particolarmente interessante.
C’è un asset sottostante molto solido, in quanto consiste in quello che si definisce – quando si parla di NFT – un IRL: un oggetto fisico, esistente in real life.
Non solo: è un oggetto unico, non è un pezzo facente parte di una serie di t-shirt o di sneaker, ma è creato appositamente per portare nel mondo reale – sotto forma di pendente – quello e solo quello specifico CryptoPunk.
Se pensate che nell’ambito della cryptoart esistono diversi casi, tutt’altro che rari, di NFT con quotazioni superiori ai 30 Ether senza che vi sia un asset sottostante reale, ma che sono solo rappresentativi di un file che contiene un’opera d’arte digitale… ebbene, ti renderai conto che qui le fondamenta si direbbero ben più solide!
Come è andata? Bene, ma non benissimo…
Difficile giudicare, perché non conosciamo in base a quali KPI l’azienda Tiffany & Co stia valutando la performance dell’operazione. Ma a guardare ai risultati, questi si direbbero soddisfacenti ma non brillanti.
Tutti i 250 NFT sono stati venduti, e sono in mano a 184 utenti (in tanti ne hanno acquistati 3, che è il massimo numero di NFTiff acquistabile da un singolo utente in base alle regole fissate al drop da Tiffany). Insomma, “sold out”, e fin qui va bene.
Poi però è partita una intensa attività di compravendita i cui prezzi sono scesi in due giorni sotto quel minting price di 30 Ether, come potete vedere sul maggiore marketplace, Opensea. Sotto un estratto dalla lunga serie di transazioni, con prezzi inferiori anche del 26% rispetto al prezzo iniziale.
Per vedere in tempo reale come stia andando, potete visitare la pagina su Opensea.
Nel momento in cui scrivo, a due giorni dal drop, il floor price è di 27.69 Ether. Sono pur sempre, alla quotazione dell’Ether in questo momento, circa $ 45.000 ma è chiaro cosa è avvenuto: è più conveniente acquistare adesso uno dei digital pass sul mercato secondario piuttosto che aver aderito subito all’offerta iniziale (30 Ether) di Tiffany & Co.
È probabile anzi che nei prossimi giorni il floor price possa risollevarsi, sotto la spinta dell’attività speculativa, ma qui ci interessa fotografare quanto avvenuto ad oggi, e capire quali possono essere stati i limiti del progetto Tiffany.
Cosa non ha funzionato?
Le ragioni per le quali il valore di mercato è mediamente sceso di un 10% anziché apprezzarsi possono essere tante. E non è facile individuarle, perché dovremmo essere in grado di conoscere in dettaglio le logiche non di un segmento di mercato, ma di una nicchia a cui si rivolgeva l’offerta.
Non solo. Per dare un giudizio complessivo e dettagliato avremmo bisogno di dati non divulgabili dall’azienda (ad esempio, qual è il costo di realizzazione di ogni singolo pendente?). E anche di tempo, per vedere l’evoluzione dei prezzi degli NFT.
Ma limitiamoci a ragionare su quel concetto prima espresso: una iniziativa rivolta ad una nicchia ben definita.
Una nicchia composta dai soli possessori dei 10.000 CryptoPunks, gli unici ai quali erano destinati i NFTiff. Parliamo esattamente di 3.569 possessori a livello globale. Non è una nicchia: è una micro-nicchia.
Uno dei maggiori problemi che allora intravediamo è dovuto alla dimensione minima, data la meccanica dell’operazione, del mercato primario ma anche del mercato secondario. Chiariamo meglio.
Ora, l’iniziativa lanciata da Tiffany & Co era rivolta a poco più di 3.500 individui che rappresentano il primary market.
Completato il drop iniziale, si parte con le transazioni successive che danno vita ad un secondary market. Fin qui nulla di strano: accade per qualunque collezione di NFT.
Ma attenzione: questi NFT hanno un valore solo se redimibili, e quindi utilizzabili come digital pass per ottenere un pendente d’alta gioielleria. Ma il redeem, in base alle regole fissate dall’azienda, è possibile solo se il possessore dell’NFT ha nel suo digital wallet un CruptoPunk.
Diversamente l’NFT è inutilizzabile.
Questo vuol dire che nel caso di Tiffany il secondary market è ampio quanto il primary market... dove per ampio si intende estremamente ristretto!
Accade non di rado che il minting di una nuova collezione sia riservato solo a chi già possieda già un NFT di un’altra collezione, solitamente dello stesso artista o della stessa azienda.
Ad esempio, quando Yuga Labs ha recentemente lanciato il suo metaverso (denominato Otherside), ha messo in vendita porzioni di virtual land del metaverso tramite la collezione “Otherdeed for Otherside“. L’acquisto però era riservato solo a chi già possedesse un NFT della pregiata collezione Bored Ape Yacht Club, la punta di diamante di Yuga Lab.
Ma poi gli NFT “Otherdeed for Otherside” potevano essere rivenduti a qualsiasi altro utente, aprendo così le porte ad un secondary market ben più ampio.
Invece, nel caso degli NFTiff di Tiffany & Co per nessun utente, che non sia già in possesso di un CryptoPunk, avrebbe senso acquistare un NFT al cui reale valore non potrebbe avere alcun accesso.
Il flipping degli NFTtiff
Il termine flipping indica un’attività di trading di NFT realizzata in tempi brevi: l’utente acquista un NFT da un altro utente (o lo acquista, col minting iniziale, al momento del drop), per poi rivenderlo con un margine anche dopo pochi giorni, o comunque alla prima occasione.
In sostanza una speculazione sui prezzi, che si riscontra in tanti mercati finanziari (azioni, ETF, dove da sempre si effettua daily trading sulle piattaforme online), ma anche sull’emergente mercato degli NFT.
Ora, dopo le considerazioni prima fatte sul trading degli NFT di Tiffany, facciamo un passo indietro e chiediamoci: se il valore di questi NFT risiede nella convertibilità in oggetti IRL (fisici) unici, per quale ragione è immediatamente partita, nei giorni successivi al drop, un’attività di flipping?
Ed infatti i dati (fonte: Etherscan) ci dicono che in poco più di due giorni sono avvenute 48 transazioni sul mercato secondario. E in questo momento su Opensea vi sono 19 NFT posti in vendita.
Stiamo forse dicendo che una certa quota degli acquirenti iniziali non ha mai avuto alcun interesse nel redeem e quindi nel pendente ottenibile, e hanno effettuato il minting esclusivamente per fini speculativi?
E che quindi la proposta di valore da parte dell’emittente, Tiffany & Co, non è stata nemmeno compresa e apprezzata, se non per la possibilità di realizzare un margine, come per un qualsiasi collectable?
Insomma, un’iniziativa, quella di Tiffany & Co, con luci e ombre.
NFT, tra sperimentazione ed esplorazione
E tuttavia, l’operazione di Tiffany & Co resta assolutamente interessante. In ogni caso l’azienda ha venduto tutti i 250 NFT, per un ricavo complessivo di 7.500 Ether, ovvero 12.75 milioni di euro.
Dopo il minting iniziale si è avviata una certa attività di trading, segno che diversi utenti li hanno acquistati solo per fini speculativi, senza interesse per la convertibilità. Ma queste compravendite hanno accusato da subito un trend negativo, con prezzi decrescenti.
Probabilmente, data la meccanica stabilita, era un po’ inevitabile che il floor price si livellasse verso il basso.
Certo, dal punto di vista della comunicazione l’azienda avrebbe senz’altro apprezzato la possibilità di raccontare che i suoi NFTiff venivano poi rivenduti a cifre crescenti, mentre il trend è stato purtroppo l’opposto.
Non è una operazione utile dal punto di vista della diffusione mainstream degli NFT, concetto sul quale chi scrive è decisamente un fautore. Lo ripeto per questo in altri termini: sono profondamente convinto che il vero valore dei mercati crypto sarà tangibile solo quando sarà avviato un processo di democratizzazione nell’utilizzo delle applicazioni derivate dalla blockchain.
Qui siamo nel caso opposto, che combina il numero già ristretto dei fortunati possessori di CryptoPunks, item digitali il cui valore si esprime in centinaia di migliaia di dollari, all’esclusività che ruota da sempre intorno all’alta gioielleria.
Era nelle intenzioni dell’azienda? Era stato previsto che una tale “strozzatura” avrebbe schiacciato le quotazioni degli NFT? O forse l’obiettivo è da ritenersi raggiunto con la semplice vendita iniziale?
Difficile dirlo, guardando dall’esterno. Quel che è certo è che è una operazione che non merita di essere duramente criticata, come si è visto in qualche post su Linkedin ad esempio.
La crescita del Web3 deve inevitabilmente passare, per le aziende, attraverso un percorso di esplorazione non sempre lineare, aperto alla sperimentazione e – perché no – anche agli errori.
Resta un’operazione interessante, come forma di sperimentazione di quel ruolo di bridge tra mondo virtuale e mondo reale che in prospettiva i non-fungible token possono assolvere in maniera eccellente.
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