E’ stato un vero shock, l’ondata di licenziamenti che hanno scosso Silicon Valley (nell’immagine sopra, i protagonisti della popolare sit-com “Silicon Valley”).
Qualche numero? Twitter, 3.700 licenziamenti per guadagnare in efficienza subito dopo l’acquisizione di Elon Musk (ma si parla in prospettiva di numeri ben superiori).
Meta (ex Facebook), 11.000 licenziamenti, dovuti ad un sensibile calo dei ricavi pubblicitari delle piattaforme social, a cui si è affiancato nel 2022 un’impressionante perdita di ben $ 13.7 miliardi, bruciati negli investimenti di Reality Labs, il braccio armato del gruppo per l’espansione nel metaverso, quel metaverso che Zuckerberg prometteva così vicino ma che si è dimostrato al momento solo una voragine per le risorse dell’azienda. Mentre girano le prime voci di una possibile uscita del fondatore dal vertice dell’azienda…

E poi continuando: 12.000 licenziamenti in Alphabet (ex Google), che ha visto declinare i suoi ricavi pubblicitari sull’onda del difficile clima economico. E Microsoft, con 10.000 licenziamenti. E Amazon, meno ottimista sulla crescita del suo business nei servizi cloud, con ben 18.000 licenziamenti. Salesforce, con circa 7.000 licenziamenti annunciati, e Snap con 1.300 licenziamenti (pari al 20% dei dipendenti), IBM a inziio 2023 annuncia 3.900 licenziamenti. E la lista continua, con altri nomi magari meno noti, ma che nell’insieme danno l’idea che a Silicon Valley il clima e cambiato.
Resiste al momento solo Apple, che però non attraversa un momento facile, compressa tra una domanda dei suoi prodotti in frenata e difficoltà produttive (legate alla situazione in Cina dove la pandemia ancora paralizza il paese) dall’altra.
In numerosi casi i licenziamenti hanno riguardato dipendenti che avevano sviluppato una lunga carriera all’interno di queste aziende, ritenute fino ad ieri organizzazioni solide, sicure, attente alle esigenze delle loro risorse umane. Generando frustrazione, delusione, persino rabbia, tra le persone colpite da questi ‘layoff’. Situazioni che hanno fatto parlare della fine definitiva del mito della fedeltà aziendale come valore riconosciuto dall’azienda stessa (tema che ho voluto toccare in un mio recente post su Linkedin).
Silicon Valley: la fine di un’era?
La Silicon Valley che conoscevamo sembra ad un punto di svolta. E dalle grandi corporation quotate al Nasdaq alle startup il passo è stato breve, Quel mondo fatto di promettenti startup, che sognano di diventare “unicorni” (ovvero valutate un miliardo di dollari), di trasformare le nostre vite tra droni, app, criptovalute, viaggi spaziali, veicoli elettrici, sembra oggi un po’ appannato. E sicuramente attrarre capitali di investimento dai VC (venture capitalist) diventa in prospettiva una sfida ancora più difficile del passato.
Mentre nel mondo del Web3, quello che negli ultimi anni aveva sbigottito tutti con una crescita spaventosa del business intorno ai nuovi mercati delle criptovalute e degli NFT, si parla ormai da mesi di un “cryoto winter“. Le criptovalute hanno perso circa 2 trilioni di dollari nel corso del 2022, con la regina – il Bitcoin – sotto del 60% rispetto ad inizio anno. Il collasso di FTX è stato un sano bagno di realismo per tutti coloro che ancora credevano nel sogno di un rapido arricchimento grazie alle criptovalute. E il mercato emergente degli NFT (non-fungible token) ha visto un declino che in diversi calcolano prossimo al 90% rispetto ai massimi dell’anno precedente.
E anche il “crypto winter” si è tradotto in pesanti licenziamenti, il più vistoso dei quali è quello del maggiore exchange, Coinbase, che ha liquidato prima 1.100 dipendenti nel giugno, e poi ulteriori 950 a fine anno, riducendo cos’ nel corso dell’anno il numero dei dipendenti del 30%.
Dipendenti ben pagati dalle Big Tech, il cui reddito ha consentito ai prezzi dell’immobiliare di San Francisco di schizzare a livelli inaccessibili al comune mortale statunitense, sono oggi preoccupati di ricevere all’improvviso quella scarna email con la quale si annuncia in maniera secca e sbrigativa la fine del rapporto di lavoro, e dei numerosi benefit connessi (incluse mense aziendali che sembrano ristoranti stellati).

La fine di un’era? Molto probabilmente no, ma non possiamo ignorare il fatto che nel corso del 2022 le Big Tech (Amazon, Apple, Alphabet, Microsoft e Meta) insieme abbiano perso un valore cumulato di capitalizzazione in borsa pari a 4 mila miliardi di dollari. Che a scatenato la preoccupazione degli investitori.
Ma quali sono le cause di questa ondata di licenziamenti?
Cosa è cambiato a Silicon Valley?
Possiamo schematizzare quanto è avvenuto in 5 fattori che hanno portato il top management delle big Tech verso decisioni drastiche, con impatti sulle vite di decine di migliaia di dipendenti. Fattori che, se ci fate ben attenzione, sono strettamente concatenati tra loro.
Indubbiamente siamo entrati in un nuova fase di maturità dei mercati, dopo un triennio di sorprendente crescita (legata alla pandemia) nel consumo di prodotti e servizi digitali (la massiccia diffusione delle tecnologie connesse al lavoro in remoto è l’esempio più eclatante).
La crescita, probabilmente poco organica, nel triennio precedente aveva portato ad assunzioni eccessive,
Una terza causa è indubbiamente il declino del ritorno atteso sugli investimenti nei progetti più coraggiosi e futuristici: i miliardi bruciati da Meta nella sua strategia di sviluppo del metaverso (del quale ne riparleremo più avanti) sono il caso più noto, ma non unico.
Poi, una recessione ormai attesa negli Usa, affiancata da un’inflazione a doppia cifra già in corso, che spinge le Big Tech a prepararsi in anticipo per “i tempi duri” che si profilano.
Infine, un certo pessimismo da parte dei grandi investitori istituzionali, come i fondi di investimento, che si traduce in pressione immediata sul top management delle Big Tech verso strategie più orientate all’efficienza e meno ad una crescita su sentieri incerti. Quasi inevitabile, andando a guardare l’andamento, ad esempio, dell’indice Nasdaq negli ultimi 12 mesi (fonte: Yahoo Finance):
Meta: dal metaverso all’efficienza
Un esempio? In Meta, nonostante quanto possiate pensare, il CEO e storico fondatore Mark Zuckerberg possiede oggi il 13.6% del flottante. Che non è poco, è un valore che ne fa uno degli uomini più ricchi negli Stati Uniti, ma non gli assicura il controllo dell’azienda.
Mentre gli investitori istituzionali, come BlackRock, Fidelity, Vanguard, possiedono tutti insieme il 74.5% del flottante. E pare che il CEO di uno di questi fondi, esattamente Altimeter Capital Chair, abbia inviato una letterina personale al buon Mark raccomandandogli di rimettere i piedi a terra, staccarsi un attimo dal suo attuale lavoro di visionario del metaverso, e procedere con una robusta revisione dei costi, a partire da un altrettanto robusto taglio del personale. Come è poi avvenuto.
A inizio febbraio, inoltre, Zuckerberg ha annunciato il 2023 come l’anno dell’efficienza (ma non doveva essere l’anno del metaverso?), promettendo un vero e proprio piano dettagliato di ulteriore riduzione dei costi, cosa che è stata particolarmente apprezzata dai mercati finanziari: il titolo, che quotava a inizio della giornata del 2 febbraio $153, è schizzato in un solo giorno a $ 184, un impressionante incremento del +20%.
Una lezione di austerità che sembra stia rapidamente facendo presa tra le altre Big Tech.
Le Big Tech si convertono al nuovo clima di austerity
Sundar Pichai, CEO di Alphabet (ex Google), ha assicurato che l’azienda è impegnata ad investire con senso di responsabilità e disciplina. Tim Cook, CEO di Apple, ha immediatamente disegnato una Aple del futuro “ponderata e cauta”. Andy Sassi, l’uomo che prenderà il ruolo di Jeff Bezos a capo di Amazon, una sfida che fa tremare i polsi, ha giò prospettato una forte focalizzazione su controllo dei costi.
Ma non è la fine di Silicon Valley, della crescita delle Big Tech. Sono numerosi i “white spaces” nei quali si possono sviluppare tecnologie e mercati. Microsoft ne ha dato una dimostrazione, scommettendo ben 10 miliardi di dollari in un investimento sulla startup OpenAI (nota per il promettente ChatGPT, che sta giò facendo sognare sulle opportunità connesse ad una diffusione mainstream dell’intelligenza artificiale).
E’ una fase nuova, diversa, in cui le Big Tech devono imparare a costruire sogni rimanendo però con i piedi ben piantati per terra, quindi con un approccio più solido, maturo, responsabile verso gli stakeholder, conciliando visione ed efficienza. Una fase che si origina sì dalle Big Tech, ma che inciderà in tempi brevi anche nella cultura del mondo delle startup, inevitabilmente.
Un approccio che partirà da Silicon Valley ma non mancherà di raggiungere, come un’onda lunga, l’Europa e il nostro Paese, portando più maturità, e smussando probabilmente certi entusiasmi che aleggiano tra aspiranti startupper ma che fanno dimenticare che alla fine una startup deve muoversi pur sempre nell’ambito delle regole del gioco di una impresa.
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