La migliore strategia è uscire dalla comfort zone. Ma cosa ha a che fare questo concetto, tratto dalla psicologia, con la strategia d’impresa? Lo capiremo tra poco, ma prima chiariamo bene il significato dell’espressione comfort zone.
Cosa è la “comfort zone”?
La psicologia definisce la comfort zone (letteralmente: zona di conforto) come quello stato psicologico in cui percepiamo la situazione circostante come del tutto familiare, e di conseguenza siamo a nostro agio, senza sensazioni di stress o di ansia.
Ma non lasciarti ingannare da questa “positività” che trapela dal concetto.
La familiarità, l’assenza di ansia e stress, ci segnalano che non vi è alcun pericolo intorno a noi, è vero. Ma al contempo implicano che non abbiamo alcuno stimolo ad apprendere, cambiare, migliorare.
Come spiega infatti l’esperto di performance management Alasdair White, se siamo in grado di superare i confini della comfort zone, allora entriamo nella optimal performance zone (zona di prestazione ottimale).
Entriamo cioè in una situazione non più del tutto familiare, nella quale percepiamo uno stato di ansia e stress, che però sono a piccole dosi, e ci inducono ad apprendere e migliorare le nostre prestazioni personali per poter ridurre quei livelli di ansia e stress.
Un esempio: la metafora del tennis
Un esempio molto semplice e concreto, per farti capire, è quello dello sport. Immagina di essere un tennista dilettante, appassionato e con buona tecnica, ma niente di più.
Se giochi a tennis ogni settimana col tuo amico, giocatore di livello simile al tuo, dopo qualche anno i tuoi livelli prestazionali saranno gli stessi di sempre. Perché sei nella tua comfort zone.
Peggio ancora se ad un certo punto cominci a giocare sistematicamente con un giocatore molto più debole te. Comincerai a “vincere facile”, ma stai certo che dopo qualche anno, tornando a giocare con l’amico di sempre, potresti avere qualche difficoltà e capire che sei stato a lungo in una zona così “confortevole” che hai persino fatto due passi indietro, nel tuo livello.
Immagina per assurdo che invece, da un certo punto in poi, ti trovi catapultato a giocare ogni settimana non più col tuo solito amico, ma in un torneo internazionale.
Sarai sistematicamente massacrato in pochi minuti, del tutto sfiduciato sulla possibilità di fare anche un solo punto, figuriamoci di vincere un set.
Apprendimento: zero. Miglioramento della performance: zero.
Probabilmente perderai persino il tuo interesse per il gioco, a causa della frustrazione e dell’imbarazzo di perdere in maniera così umiliante davanti al folto pubblico e alle telecamere del Roland Garros e di Wimbledon.
Ora immagina invece di giocare ogni settimana con un giocatore più forte di te, ma nella giusta misura.
Ogni partita diventa un po’ più impegnativa di quando giocavi col tuo solito amico, sarai un po’ più ansioso prima della partita e percepirai un po’ più di stress durante il gioco, ma ogni tanto piazzerai qualche punto e dopo un po’ riuscirai ad aggiudicarti anche qualche set.
Perché quello che è avvenuto è che sei entrato nella tua zona di prestazione ottimale e hai cominciato a muoverti lungo una curva di apprendimento per migliorare gradualmente la tua abilità tennistica e il tuo potenziale di performance. Per questo, come spiegava Alasdair White, è importante individuare la tua zona di prestazione ottimale ed entrarvi, se intendi davvero incrementare il tuo livello di performance.
La comfort zone per le persone. E le aziende?
Il concetto di comfort zone nasce in riferimento agli individui, ma ora la domanda è: si può estendere questo concetto anche alle organizzazioni? E in maniera più specifica, esiste una comfort zone nella strategia d’impresa?
La risposta è sì: il concetto di comfort zone si può estendere alle imprese, ed entra in relazione alla loro strategia. Faremo un esempio utilizzando un noto framework utile per l’analisi strategica: la matrice di Ansoff.
Nella matrice di Ansoff (se non la conosci, puoi sempre consultare un precedente articolo sull’argomento) descrive le possibili direzioni per la crescita dell’impresa, definite in base a due variabili: prodotti e mercati.
In breve, semplificando al massimo, l’impresa può crescere con tre diverse strategie: entrare in nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti, o anche seguire contemporaneamente le due direttive strategiche (diversificazione).
La matrice di Ansoff illustra chiaramente come il successo dell’impresa deve passare necessariamente attraverso l’ingresso in aree nuove (nuovi mercati e/o nuovi prodotti), abbandonando lo status quo nel quale l’azienda è “fossilizzata” sugli stessi prodotti e sugli stessi mercati o segmenti di clientela.
Parliamo di quel quadrante in basso a sinistra, dove l’unica strada di crescita pensabile è provare a strappare quote di mercato alla concorrenza: strategia costosa e dal fiato corto nei mercati ormai maturi.
Una comfort zone nella quale il management si illude di poter gestire l’azienda senza eccessivo stress, ma nella quale il fatturato nella migliore delle ipotesi resta “inchiodato”.
Nella migliore delle ipotesi, esatto. La concorrenza non starà certo a guardare e spingerà a sua volta a erodere la nostra market share, mettendo a rischio i nostri livelli di fatturato e quindi di profittabilità.
Ma c’è di peggio.
Se avvenissero fenomeni di disruption, restare nella comfort zone per l’impresa si rivelerebbe un errore strategico disastroso, di quelli che coinvolgono la sopravvivenza stessa dell’impresa.
Siamo così adagiati nella comfort zone, magari illudendoci di restare market leader per sempre, che non siamo nemmeno più in grado di cogliere i segnali di rischio e cambiamento intorno a noi.
Non stiamo esagerando: è proprio quello che fece la Kodak, restando ancorata al suo business della pellicola fotografica nel quale sfoggiava una leadership indiscussa. Finché non è arrivato qualcuno, o meglio qualcosa, che non le ha strappato quote di mercato. Ha spazzato via il mercato, punto. on l’arrivo della fotografia digitale Kodak ha dovuto dichiarare fallimento.
E non pensiate che Kodak non avesse avuto l’opportunità di reagire tempestivamente alla disruption. Già nel 1973 Kodak aveva in realtà sviluppato al suo interno un primo prototipo di fotocamera digitale, ma aveva deciso di non procedere con la successiva fase di go-to-market, per paura di intaccare il suo core business. O in altre parole: di uscire dalla sua comfort zone.
La comfort zone è nemica dell’innovazione?
Si, senza ombra di dubbio. L’impresa che intende vivere cristallizzata, ancora ai soliti processi, alle solite iniziative commerciali e di marketing, al solito business, nei soliti mercati, è condannata a entrare in crisi. E con un mondo in sempre più rapida trasformazione sotto la spinta potente del cambiamento tecnologico, ciò avverrà non presto o tardi. Ma presto, prima di quando l’impresa possa immaginare.
Il vero segreto di una strategia vincente nel lungo periodo è quello di saper mettere continuamente in discussione le proprie direzioni strategiche, il proprio modello di business, i processi e l’organizzazione stessa dell’impresa.
Esiste un concetto molto interessante in proposito, quello della Bamboo Strategy, per la quale ti invito a dare un’occhiata al relativo articolo. In sostanza, le imprese capaci oggi di sopravvivere devono essere capaci di esplorare continuamente nuovi business, e questo significa entrare continuamente nella zona di prestazione ottimale.
Il migliore esempio è Netflix.
Nata per distribuire DVD utilizzando il web, differenziandosi così da Blockbuster che aveva creato un impero basato sulla distribuzione fisica.
Ma dopo alcuni anni si mette in discussione, e rapidamente converte il suo business nella distribuzione di contenuti audiovideo attraverso un modello SVOD (subscription video on demand). Diventa leader globale, nuova comfort zone quindi.
Tuttavia, Netflix è un’azienda nata per non subire il cambiamento, ma per far leva sul cambiamento. È nel suo DNA. E così è pronta dopo pochi anni per una nuova sfida: comincia a produrre contenuti, divenendo così una vera e propria media company. E potete star certi che non si fermerà a questo.
Come entrare nella zona di prestazione ottimale?
Avrai intuito che anche per un’impresa, se restare nella comfort zone è rischiosissimo, allo stesso modo fare il passo più lungo della gamba è altrettanto pericoloso per la sua sopravvivenza. Un po’ come il buon giocatore che si trova scaraventato all’improvviso a Wimbledon: non apprenderà nulla, non migliorerà, e uscirà così umiliato che probabilmente eviterà di rimettere mano alla racchetta per sempre.
Se Netflix, da distributore di DVD attraverso il suo sito internet, avesse cominciato troppo prematuramente a produrre contenuti, avrebbe certamente inciampato in un paio di flop cinematografici (eh si, perché a quei tempi non era diffuso ancora il TV streaming), di quelli che fanno male ai bilanci.
L’approccio è quindi un altro. Esaminiamolo in quattro punti:
(1) Adiacenze: identificare tutte quelle che sono le adiacenze ai mercati che già serviamo o ai prodotti/servizi che già produciamo. Se produciamo molto, come Harley Davidson, inseriamo nella lista abbigliamento sportivo per motociclisti. Se siamo Nestlé e produciamo caffè solubile, inseriamo nella lista l’idea di un business di capsule da caffè che ruota intorno ad una macchina da caffè per le case. E così via.
(2) Criteri: definire quei criteri con i quali selezionare la lista di possibili “uscite” al di fuori dalla comfort zone. Ad esempio: investimento finanziario richiesto, ROI atteso, cambiamenti organizzativi necessari, risorse da sviluppare o acquisire.
(3) Selezione; selezionare quelle adiacenze che soddisfano i criteri adottati. Se fossi Technogym, potrei trovare economicamente “appetibile” entrare nel business dei centri benessere in franchising.
(4) Learning curve: sviluppare esperienza, e quindi attivare la curva di apprendimento, nelle adiacenze identificate come target. Come?
Una possibile strada è quella dell’adozione di metodologie proprie delle startup, ovvero con un approccio lean. Iterativo, sperimentale, basato su un rapido sviluppo di “prototipi” pensati per testare il mercato (MVBP, ovvero Minimum Viable Business Product) raccogliendo informazioni e dati, alla ricerca del migliore product-customer fit.
Cosa significa in concreto applicare un approccio lean ad una strategia di sviluppo del business?
Facciamo un caso ipotetico ma riferito ad un’azienda reale: Technogym, splendida realtà imprenditoriale italiana.
Technogym potrebbe decidere di avviare una strategia mirata alla diversificazione lanciando un business di franchising di spazi per il wellness.
Aprirebbe all’inizio un primo spazio wellness di proprietà, con investimenti molto limitati, magari a pochi chilometri dalla sede dell’azienda. Sarebbe un test che aiuterebbe l’azienda a sviluppare rapidamente esperienza e raccogliere dati e informazioni, sperimentando senza alcun timore di sbagliare, perché in caso di errori il core business non ne sarebbe mai intaccato.
Questo primo spazio wellness prototipale potrebbe benissimo rivelarsi un fallimento, ma anche questo sarebbe un risultato importante, perché si eviterebbe così di investire seriamente su una strategia rischiosa, debole, che non è stata validata dal test.
Oppure il test validerebbe l’ipotesi di strategia di diversificazione. Allora si entrerebbe nella fase vera e propria di go-to-marketing, ma sempre mantenendo l’approccio lean, aprendo ancora qualche altro punto wellness che funga da flagship, e solo successivamente lanciando il vero e proprio programma franchising.
Fare invece immediatamente il grande salto, aprendo da zero un ampio numero di spai wellness di proprietà e in franchising, con investimenti importanti, equivarrebbe in termini di stress a quel buon giocatore dilettante che si trova improvvisamente catapultato sui campi di Wimbledon.
La cultura del fallimento alla base dell’innovazione
Uscire dalla comfort zone ed entrare nella zona di prestazione ottimale, per un’impresa, non è solo questione di strategia. È anche questione di cultura aziendale.
Una cultura interna rigida, chiusa all’innovazione, diffidente del cambiamento, non consentirà mai al management di abbracciare un approccio sperimentale ed esplorativo, che presuppone qualcosa di molto importante: l’errore.
Spesso la cultura delle imprese teme il concetto di fallimento, e dà un’accezione del tutto negativa alla parola errore. Ma quando sbagliare diventa parte di un processo disciplinato, costruito per raccogliere informazioni alla scoperta di nuove opportunità o di nuovi modi di fare le cose, uscire dalla comfort zone diventa purtroppo molto difficile.
Quando, mettendo piede in un’azienda, sentite frasi come “Qui si è fatto sempre così” e “Ci abbiamo già provato quella volta e non ha funzionato…”, sappiate che sono segnali deboli del fatto che il management si è adagiato nella sua comfort zone.
Con tutto quello che ne consegue.
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